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Classifica 2017 | 15 ottime ragioni cinematografiche per non impiccarsi a fine anno

25/12/2017 news di Raffaele Picchio

Il Santo Natale rende buoni anche i più polemici: nonostante dodici mesi pieni di immondizia, sono più di una dozzina i titoli a cui volere bene nonostante tutto

Ed eccoci anche nel 2017 all’odiosissima e inutile classifica del meglio (c’è anche il peggio, non preoccupatevi) visto da me durante l’anno appena trascorso. Non troverete nessuna serie TV (anche se roba come Mindhunter e Taboo è stata notevolissima e ha ripagato ogni minuto che gli si è dedicato), qualcosina è ancora inedita nella distribuzione italiana e grossomodo ho cercato di spaziare su più generi e panorami possibili. Questi 15 titoli che compongono il “top” NON sono assolutamente messi in ordine di preferenza e grossomodo sono quelli che a pensarci un attimo sono rimasti un pochino di più nella testa. Considerando che tendenzialmente non mi ricordo mai un cazzo mi sono pure sorpreso di averne tirati fuori 15. Chiaramente tanta roba potenzialmente magnifica non l’ho vista e recupererò nel tempo, altra probabilmente me la sono scordata (appunto), ma tanto si fa giusto per chiacchierare. Buona lettura!

Logan – The Wolverine di James Mangold

In un mare magnum di universi demmerda condivisi in cui i film di supereroi sembrano tutti episodi pilota di una serie televisiva che non partono mai, arriva come un ufo questo Logan che, completamente scollegato da ogni demente timeline, decide di andare controcorrente e non raccontare un ennesimo “inizio”, ma una “fine”. Qui la gente muore davvero, i mutanti sono in via di estinzione e tutto quello che pensavamo di aver visto sono solo fumetti per bambini. “La vita del vecchio in cambio di quella della giovane. Una scelta giusta” faceva dire Frank Miller a uno dei suoi memorabili antieroi di Sin City e Mangold sembra aver tenuto bene in mente questo concetto, girando una sorta di western on the road crepuscolare e triste, capace di toccare corde intime ed emozionali senza mai risultare pesante o retorico. Si celebra con funerea sincerità il cinema che non c’è più (Il cavaliere della valle solitaria su tutti, in un magnifico omaggio) e grazie anche alle splendide e sentite interpretazioni di Hugh Jackman e Patrick Stewart riesce a farti dimenticare tutta quella plastica brandizzata arrivata all’assuefazione. Il sangue gronda, la morte è onnivora e la speranza non è altro che un’utopia da passare alle nuove generazioni. E’ vero che il minutaggio è esagerato e per quanto sia un film unico e scollegato chi non conosce le vicende dei personaggi rischia di non provare lo stesso trasporto di un “fan”, ma il solo fatto che Mangold sia riuscito nel compito di emozionare (e perchè no, anche commuovere) con un puro film di intrattenimento è qualcosa per cui vale la pena togliersi il cappello. In Blu-Ray è uscita una versione in bianco e nero ancora più bella di quella a colori.

T2: Trainspotting di Danny Boyle

Sulla carta un rischiosissimo harakiri di cui nessuno sentiva il bisogno, nei fatti un grandissimo e malinconico film che con grande intelligenza si distacca dall’equivalente cartaceo Porno (che diciamolo, era un po’ una cazzata) e prosegue con grandissima coerenza e coraggio quello che fondamentalmente era il vero tema del primo film: il senso dell’amicizia, l’impossibilità dell’inserimento sociale, il disagio e una latente paura del futuro commutata in rifiuto. In tutti questi anni non è cambiato molto e quel poco non è certo cambiato in meglio e questo ritorno di Renton, Spud, Begbie e Sick Boy è ammantato di una disillusione e di una malinconia sincera e palpabile che nient’altro è quella dei sconfitti dalla vita che “si è scelta”. Qualcosa su cui è facile identificarsi. La merda lasciata sotto il tappeto non sparisce e il tempo non cancella niente, ma si prende coscienza che il vuoto totale fa parte di ognuno di noi e l’unica cosa possibile è conviverci: crescere significa non avere paura di lasciar scorrere quel disco colonna sonora del passato o di abbracciare chi si è abbandonato per un motivo o un altro ed accettare finalmente quello che in tutto e per tutto si è, nel bene e nel male. Boyle incatena una serie di sequenze magnifiche (il bar di protestanti, l’incontro tra Renton e Begbie) con grandissimo senso della messa in scena, arrivando a un finale letteralmente da pelle d’oca che colpisce duro come un macigno, commuove e in un certo senso consola. Si perchè T2 ti ricorda che non sei solo, anche se pensi di esserlo e come ci diceva anche Jennifer Kent, i propri Babadook vanno nutriti, accettati e accuditi. Mai negati. Un film prezioso, vero, divertente e tragico che allo scorrere dei titoli di coda fa uscire dalla sala con la malinconica felicità di una bella serata tra amici che non si rivedevano da tempo e che molto probabilmente non rivedremo più.

Kong: Skull Island di Jordan Vogt-Roberts

Ed ecco che dopo l’ottimo Godzilla di Gareth Edwards arriva il secondo tassello di questo “MonsterVerse” che vede protagonista il gigantesco King Kong. E come fare a reintrodurre il mito del gorillone gigante dopo che Peter Jackson con il suo capolavoro incredibile del 2005 ha messo una pietra sopra ogni possibilità di “remake”? Semplice, basta andare a pescare nell’exploitation più folle e imbastire uno spettacolare monster movie catastrofico fortemente imbastardito con suggestioni da viet-movie. E se Edwards, giustamente, centellinava il suo mostro fino al gran finale, qui Kong dopo cinque minuti si vede in tutta la sua grandezza e dopo neanche venti minuti prende a schiaffi elicotteri militari. Grandissimo divertimento e una serie di scene madri che non si dimenticano, tante citazioni inaspettate (pure Cannibal Holocaust!) e un gorilla che pensa solo a picchiare snobbando pure la fregna (anche perchè Brie Larson che scatta foto di continuo non si può guardare). Ci si ritrova senza neanche accorgersene a fare il tifo come i pazzi, ma dietro una struttura solo apparentemente “semplice” c’è un gran lavoro e tanta intelligenza. Puro, splendido, catastrofico divertimento. Se questo è il tenore di questo “universo condiviso” ne vogliamo ancora e ancora.

Brimstone di Martin Koolhoven

Mai fidarsi dei fischi e delle pernacchie della critica snobbona festivaliera. Brimstone che sembrava essere chissà quale catastrofe è uno dei western più oscuri visti da tanti anni a questa parte, quasi da sfociare nell’horror puro. Costruito a capitoli non lineari puzza letteralmente di “zolfo” fin dalle prime inquadrature e se è vero che la durata e i ritmi non gli vanno proprio incontro è ammirevole come sa rilanciare continuamente la storia e come non abbia paura di spingere il pedale fino in fondo. Se Kit Harington (Il trono di spade) si impegna ma rimane un cagnetto, sono assolutamente degni di nota l’eccessivo (ma mai insopportabile) Guy Pearce e sopratutto a sorpresa Dakota Fanning, che attraversa ogni sorta di violenza e martirio. Una parabola biblica oscura e spietata che ci tiene a ricordarci come il fanatismo e il male si nasconde dietro istituzioni intoccabili che si fanno portavoce di un Dio travisato e violento. Se Lars Von Trier decidesse di girare un western, forse non sarebbe lontano da questo. Imperdibile.

Alien: Covenant di Ridley Scott

Bombardato dalle idiote lamentele del fandom nerd che rosicò dell’assenza di xenomorfi in quel filmone sempre poco lodato di Prometheus, Scott continua imperterrito e coerente il suo cammino profondamente ateo verso il concetto stesso di creazione. E se è vero che rispetto all’opera precedente si cerca di stare con un piede da una parte e uno nell’altra rischiando di scontentare tutti, è incredibile il coraggio di andare contro ogni aspettativa per spingersi ancora più in lontano, in barba ad ogni regola commerciale. Alien: Covenant è l’altra faccia oscura di Prometheus, uno sci-fi horror nero come la pece e profondamente pessimista che parla di concetti altissimi senza mai vergognarsi del suo essere di “serie B”: la creazione come opera chimica di dei sintetici che non possono morire, umani-troppo-umani che radono al suolo per costruire, immersi in una solitudine che non può che diventare arma di distruzione di massa. Sapendo quello che poi effettivamente accadrà, Covenant diventa ancora più nero (David inevitabilmente finirà per diventare inutile e superato dalle sue stesse creazioni che vivono ed evolvono senza l’aiuto di nessun “creatore”) e quell’entrata finale nel Valhalla assume aspetti così apocalittici e definitivi che l’attesa per il terzo tassello (magari conclusivo) del moderno prometeo David e della sua “caduta”, diventa insostenibile. Grazie Ridley di sbattertene continuamente il cazzo della “massa”.

La cura dal benessere di Gore Verbinski

Pazzesco Verbinski, che continua a girare con budget faraonici blockbuster così magnifici, eleganti e intelligenti. Peccato che esattamente come il sottovalutatissimo The Lone Ranger del 2013, anche questo ritorno all’horror è stato un bagno di sangue a incassi, a dimostrazione che purtroppo non sembra esistere più un pubblico ampio del “genere”. Ed è un peccato che in pochissimi hanno amato un monumento al cinema gotico che avrebbe mandato in estasi la Hammer, tanto moderno nelle tematiche quanto profondamente classico nel concetto. L’assoluta e necessaria “cura” dal cinema horror preconfezionato made-in-Wan tutto jumpscare e ragazzini, mescolata al thriller paranoide e al gotico: zero romanticismi da riporto, una crudezza e un timore perpetui con qualche improvvisa e sinceramente raggelante esplosione gore accompagnati da un cast perfetto e servito con una classe e una potenza visiva che non ha eguali contemporanei, segnando senza dubbio l’apice di Verbinski. La Cura dal Benessere è un film che sarebbe piaciuto a Fisher, Baker, Hickox e compagnia goticheggianteche e probabilmente avrebbe reso felice anche Vincent Price. Dal Corridoio della paura alla Maschera di cera, passando per Phibes e quant’altro … Ma che cazzo volete di più?

La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson

Se c’è un cineasta contemporaneo che ha fatto dell’azzardo e della coerenza una garanzia costante, questo è Mel Gibson. Al quinto film dietro la macchina da presa, ci regala una nuova bordata spirituale che lascia esterrefatti dalla potenza delle emozioni capace di suscitare. La storia dell’obiettore di coscienza che va in guerra senza armi trasuda una passione e un trasporto d’altri tempi: Aldrich, Garnett, Fuller e quant’altro sono come sempre frullati in modo divino e le due parti nette in cui è diviso il film sono assolutamente complementari e fondamentali. Cinema gigantesco e coraggioso, classico e durissimo (la seconda ora di battaglia è un carnaio di orrori e dolore come raramente si è visto), profondamente spirituale e “integralista”, che fa sentire vivi, emoziona, sorprende e magari fa pure incazzare, ma che è impossibile non amare. Immenso Hugo Weaving nel dolente ruolo del padre di Doss, ma chi davvero sorprende e merita l’applauso è la coppia Andrew Garfield/ Sam Worthington, in totale stato di grazia. Bellissimo, cento di questi film Mel.

King Arthur: Il Potere della Spada di Guy Ritchie

E questa è stata veramente una delle sorprese più grosse dell’anno e bisogna seriamente iniziare a considerare che il divorzio da Madonna sia stata la cosa più bella che potesse capitare a Guy Ritchie. Autore di un cinema “coatto” post-tarantiniano che francamente mai ha detto o messo in scena granché di interessante,  si è reinventato negli ultimi anni regista di blockbuster così divertenti e clamorosi da spellarsi le mani, dimostrando la non scontata capacità di saper stravolgere ogni mitologia abusata rendendogli però nello stesso tempo omaggio e profondo rispetto. E’ stato così con i due esaltanti Sherlock Holmes e la formula si ripete con questa totale rielaborazione del mito di re Artù, totalmente devota al fantasy più spericolato e spettacolare, con i personaggi che si comportano e si parlano come bulli delle periferie inglesi. Il capolavoro assoluto di John Boorman (Excalibur) rimane un mondo a sé stante (nonché intoccabile) e giustamente Ritchie neanche prova ad avvicinarcisi. Inoltre tutti i puristi sono avvisati: qui tra clamorose sequenze spettacolari con mostri ed animali giganti e folli ellissi temporali scandite dal solito montaggio impazzito, c’è davvero da divertirsi mettendo decisamente da parte l’epica oscura, erotica e violenta che ammanta il mito. Ma King Arthur nel suo essere un semplicissimo film di intrattenimento ha l’azzardo di inventare, rielaborare e cercare di porre le basi per qualcosa di “originale”: un film che ama, conosce e rispetta la materia base (che è poi l’unico modo per tradirla così bene) e non tratta il suo pubblico come un cretino. Infatti non ha fatto una lira e i sogni di trasformarlo in “saga” sono finiti tutti nello sciacquone. Da recuperare per passare due ore folli.

Brawl in Cell Block 99 di S. Craig Zahler

Altro giro, altra corsa per Zahler, che dopo il folgorante esordio di Bone Tomahawk (2015) continua il suo viaggio nel puro B-movie. Brawl in Cell block 99 è un film “carcerario” come il precedente era un “western”: quindi per quasi un ora di film sembra di assistere a un onesto, teso e abbastanza canonico film. Poi improvvisamente scoppia l’apocalisse totale tra scorrettezze, violenza e botte che traghetta impazzito il “genere” verso l’exploitation più delirante. E quindi tantissime botte che spezzano braccia, maciullano teste e fanno volare occhi con un pessimismo che non lascia scampo a nessuno. Ma non c’è niente di gratuito nella messa in scena di Zahler, anzi tutt’altro: c’è quell’amore verso il cinema di genere che non si vergogna di sporcarsi le mani, c’è la voglia di non concedere nessuna morale del cazzo e c’è una secchezza e capacità di mettere in scena l’abominio senza mai cacare fuori dal secchiello. E poi c’è Vince Vaughn: gigantesco, tatuato, violentissimo, una bomba a orologeria umana e una grande interpretazione che conferma quanto sia attore capace e  molto valido fuori dalle stronzate di commedie che fa. E’ vero che la sintesi è qualcosa su cui Zahler dovrebbe ancora lavorare un pò, ma non ci si annoia un minuto ed è purissima serie B che non ha alcuna necessità di togliersi il cappello ogni cinque minuti salutando il cult di turno che si vuole omaggiare. Si aspetta con gran curiosità il terzo lavoro per vedere qualche nuovo genere rielaborerà.

Dunkirk di Christopher Nolan

Che piaccia o meno e al netto di tutti i cori da stadio ridicoli tra chi lo esalta a nuovo Stanley Kubrick e chi un coglione demmerda, Nolan è l’unico grosso regista contemporaneo che coerentemente (anche sbagliando per carità) lavora su un concetto di cinema gigantesco che fa del linguaggio filmico e delle immagini un territorio di sperimentazione aperto. Arrivato a una posizione di “potere” altissima, con Dunkirk azzarda oltre ogni previsione e si cimenta in un film di guerra senza guerra, un film di uomini che non hanno bisogno di raccontarsi i cazzi loro davanti a un fuoco ma che semplicemente sopravvivono. La clamorosa disfatta di Dunkerque (così Goffredo Fofi non se incazza) serve solo da “sfondo” per mettere in scena un concerto grosso per musica, regia e montaggio in un’opera essenziale (Dio grazie anche nella durata) e che spinge il cinema al suo massimo livello. Fa sudare veramente e non concede un attimo di tregua, riuscendo a emozionare e talmente coinvolgente (almeno su Imax), che spesso ti fa venire voglia di alzare preoccupato la testa verso il cielo a ogni tentativo di “attacco”. Senza bisogno di 3D o puttanate varie. Peccato davvero per una manciata di minuti tremendi posti in chiusura che fanno tirare giù ogni santo (e che qualcuno, neanche troppo a torto, può vedere come un netto controsenso a tutto quello messo in scena prima) ma che assolutamente non scalfiscono l’esperienza cinematografica più emozionante dell’anno. Montaggio video e sonoro, regia e fotografia davvero spaziali.

Madre! di Darren Aronofsky

Aronofsky è un pazzo totale, un oggetto difficilmente collocabile e ancor meno identificabile tra i nuovi autori contemporanei. E con questo Mother! infrange ogni barriera lanciandosi in una sorta di iperspazio cinematografico di follia totale. Più assurdo che “bello”, è un vero e proprio assalto sensoriale contro lo spettatore a metà tra riflessioni nichiliste su religione/creazione e seghe personali auto-biografiche, che se ne frega totalmente di ogni collocazione pensando solo a spostare l’asticella del “WTF” sempre più in alto. Il tutto ovviamente messo in scena in modo clamoroso, dove i virtuosismi della camera vanno a braccio con quella che è forse l’apocalisse più devastante vista al cinema in tanti anni. Concettualmente molto vicino all’altra pazzia di Noah (e quasi una risposta a quel film, dimostrando il perchè Noè faceva bene a dare retta a quel Padreterno impazzito che gli ordinava di non portare avanti la vita umana) e orgogliosamente fatto per non essere apprezzato da nessuno. Tra l’altro, personalmente lo ricorderò come una delle esperienze più shock vissute in sala con un pubblico variegato di incivili che ha rotto ogni quarta parete possibile e che mi ha lasciato un brivido profondissimo nel capire che quello messo in scena da Aronofski è molto meno allegorico di quanto possa sembrare. Parafrasando una massima del maestro Hunter Thompson, “troppo strano per essere amato, troppo raro per essere odiato”. Ce ne vorrebbe di più.

Detroit di Kathryn Bigelow

L’implacabile Bigelow stavolta sposta la guerriglia in casa in quella Detroit sfondo di violentissime rivolte della comunità nera in lotta con le forze dell’ordine, concentrandosi su un terribile assalto in un motel che in breve tempo diventerà teatro di uno degli abusi di potere più vergognosi (e ovviamente rimasti impuniti) di quegli anni. E se è verissimo che fatica un pò prima di ingranare (nonostante una splendida intro animato che spiega brevemente come nasce la questione dei neri in America) e ancor di più a trovare una chiusura (con una mezz’ora finale buttata veramente a cazzo di cane e che arranca malamente facendoti pregare che il film finisca prima possibile), è nella sua parte centrale e quindi nell’assalto al Motel, che la Bigelow tira fuori tutte le sue carte migliori, montando una tensione insostenibile veramente a prova di nervi con una capacità di colpire durissimo lasciandoti senza fiato e con gli occhi sbarrati davanti a un orrore incredibile e assolutamente ingiusto. La Bigelow è senza ombra di dubbio tra i nomi più importanti e grossi che l’oltreoceano può vantare e questo Detroit sta qui a rimarcarlo a tutti quelli che colpevolmente non se ne sono ancora accorti. Il film che avrebbe potuto fare Spike Lee se solo non si fosse bevuto il cervello: una denuncia durissima, secca e drammatica, che al netto delle sue “debolezze” dovrebbe vedere chiunque.

La La Land di Damien Chazelle

Amato e sbeffeggiato in egual misura, La la land conferma l’indubbio talento di Chazelle, che alza il tiro rispetto al suo capolavoro d’esordio Whiplash (2014) mettendo in scena, con un finto musical, un’altra drammatica storia che ci racconta quanto doloroso può essere il raggiungimento di un “sogno” e quanto può essere amaro il prezzo dell sacrificio. Se è vero che all’inizio la pazienza è messa davvero a dura prova, è dalla metà che il film mostra la sua vera pelle, incupendosi con un trasporto emozionale potentissimo che nel finale (con quella sorta di omaggio musicale a la 25esima ora) è capace di mettere KO chiunque. Ovviamente i finti duri del cazzo si tenessero alla larga, ma La la land non è un film dedicato a “chi ama il musical”, ma semplicemente a “chi ama il cinema”. Quello puro, fatto di emozioni e grande capacità di racconto. Emma Stone e Ryan Gosling perfetti a incarnare i loro personaggi “comuni” e Chazelle davvero bravissimo (anche se ora basta con sto jazz eh). I premi non servono a un cazzo, ma è più che comprensibile e meritato il successo ottenuto. Le polemiche “razziste” sul bianco che salva il jazz e via dicendo sono carta igienica per gossippari inutili.

Autopsy di André Øvredal & It comes at night di Trey Edward Shults

L’ex aequo horror dell’anno va decisamente a questi due titoli, che diversamente e su concetti assolutamente distanti sono stati la medaglia d’onore del genere per il 2017. Esempi splendidi che ribadiscono come molto spesso non è tanto il “cosa” si racconta, ma il “come”. Autopsy dimostra una capacità incredibile di saper raccontare con originalità e intelligenza anche il più trito dei concetti, giocando intelligentemente con i (sotto)generi e con le aspettative del pubblico, anche quello più navigato. Sorretto da tre attori fenomenali è veramente ammirevole come riesce continuamente a rilanciare il film con trovate su trovate, arrivando ad una parte finale nient’affatto deludente e sinceramente inquietante. It Comes At Night invece non ha un concept “forte” dietro come Autopsy (malattia inspiegabile, umanità allo sfascio, famiglia che sopravvive), ma è un film plumbeo, oscuro, cattivo e disperato, che mette da parte ogni effetto speciale o fighettata da indie-borioso per calarsi nella disperazione umana trascinandosi tra paranoie e impossibilità di “convivenza” verso un finale circolare che pesa come un macigno. Pochissimi dialoghi e tutti essenziali, veramente un gran lavoro. Tutti e due imperdibili.

The killing of a sacred deer di Yorgos Lanthimos

Lanthimos non ha un briciolo della glacialità di Michael Haneke e neanche la capacità di straziarti l’anima con il grottesco o il ricatto come sa fare Lars Von Trier. Probabilmente lo vorrebbe tanto (e magari crede di esserne capace), ma non ce l’ha. Però, nonostante questo, è probabilmente uno dei registi europei recenti più intransigenti e “stronzi” emersi, con una grandissima abilità nel dirigere gli attori e di scegliere sempre storie difficili e assurde. E questo secondo sodalizio con l’ottimo Colin Farrell (qui in un ruolo enorme, forse quello della sua vita) sta qui a doppiare il successo di The Lobster (2015), addentrandosi questa volta in una sorta di “horror” che nient’altro è che il gelido adattamento mitologico di Agamennone e Artemide, trasportato nell’ambito “medico” senza fare a meno della consueta sgradevolezza solita dei suoi personaggi. Non manca tutto quello che ha reso noto il suo cinema: improvvise virate grottesche, crudeltà assortite e un pessimismo cosmico totale, raccontato con un distacco che purtroppo non crea alcuna empatia con quello che si vede e ammantandosi d una “pesantezza” tanto ricercata quanto spesso totalmente gratuita. Pur personalmente preferendogli forse il precedente The Lobster, Lanthimos rimane al momento l’unico “testimone” di un cinema cinico, “stronzo” e durissimo, assolutamente non per tutti ma abbastanza paraculo da saper dribblare la trappola del circolino da cineclub arrivando ad affascinare (ed infastidire) anche una fascia di utenza più ampia. Curiosissimo cosa possa accadere dopo un lavoro come questo.