Home » Cinema » Azione & Avventura » [classifica] I 15 film ai limiti del capolavoro visti nel 2016

[classifica] I 15 film ai limiti del capolavoro visti nel 2016

30/12/2016 news di Raffaele Picchio

E 3 minzioni speciali per film soltanto splendidi

Ed eccoci all’inutile classificona di fine anno nel nome di Maurizio Seymandi. Anno veramente pieno zeppo di film ottimi se non proprio capolavori. Tantissimi non li ho visti, parecchi sono delle dolorose esclusioni e altri non me li ricordo perchè sono un rincoglionito, ma questi sono i 15 film dell’anno (alcuni dei quali sono dentro perchè usciti in sala in Italia nel corso del 2016, anche se nelle zone più fortunate del mondo erano usciti già nel 2015), assolutamente non in ordine di preferenza, più qualche minzione speciale, aggiunta un po’ perchè alcune cose le ho viste tardi e un po’ perchè alcuni film meritavano giusta citazione e non avevano trovato spazio tra gli altri.

E ricordiamoci sempre che: “Tutti i gusti son gusti!”, disse il gatto leccandosi il culo:

REVENANT redivivoRevenant – Redivivo: E tocca dare a Cesare quel che è di Cesare, no? E quindi si farà finta che l’insopportabile e antipaticissimo Birdman sia stato solo la prova generale tecnica per mettere in scena questa sorta di remake di “Uomo bianco va’ col tuo dio”, che nelle mani di Alejandro González Iñárritu diventa uno splendido, emozionante e magnetico viaggio verso la morte di due “redivivi”, uno che letteralmente riemerge dalla terra spinto dalla vendetta e l’altro già morto da tempo e ormai accecato dal solo istinto di sopravvivenza contro ogni etica e morale. Con una messa in scena incredibile supportata da un reparto fotografia oltre l’eccellenza e un cast di attori magnifico e totalmente votato alla causa (immensa tanto la coppia Leonardo DiCaprio/Tom Hardy, quanto tutto il “contorno”), Revenant è il perfetto blockbuster “intellettuale” capace di puntare altissimo soddisfacendo tanto gli occhi quanto il cervello ed è senza dubbio alcuno il miglior lavoro di Iñárritu da Amores Perros. Cinema da cinema, nell’era di Netflix e schifezze varie non è poco. Chapeau.

hateful-eight-jacksonThe Hateful Eight: Un grande autore sa continuamente mettersi in gioco, evolversi e sorprendere. E come se ci fosse bisogno di ribadire l’assoluta grandezza di Quentin Tarantino, con il suo ottavo film dirige il suo atto d’amore purissimo verso il cinema e la “sala”. La fruizione del cinema come rito collettivo e di massa, come gioco astuto tra narratore e spettatore e della potenza che solo questo rito può dare. E’ questo il motivo per cui The Hateful Eight ha senso e potenza solo nella sua versione 70mm, giustificandone il mezzo (che ha fatto puntare il dito contro i soliti quattro esperti dell’ultima ora che hanno solo da sparlare a prescindere) e glorificarne quella carnalità “chimica”, “viva”, che con dcp, digitale e altre cagate ormai si è persa per sempre. Un vinile che suona gracchiante e caldo in un mondo digitale. Solo per questo sarebbe da mandare a memoria. Ma The Hateful Eight anche depurato di questa magia è cinema purissimo: con la scusa del western si mette in scena un mix tesissimo e politico come non mai tra Agata Christie e La Cosa, dove il set diventa un palcoscenico in tutto e per tutto e i suoi (magnifici, affiatati, incredibili) attori entrano ed escono dalle quinte con la consapevolezza di essere marionette di un narratore-dio che ha già deciso tutto. Cinema magnifico e purissimo, The Hateful Eight è il film che non ti aspetti e che rimette in gioco tutto quanto e ogni cosa si pensava di sapere sull’autore. Proprio come anni fa fece l’altrettanto bellissimo Jackie Brown.

Land of mine – Sotto la sabbia: Tanto si è detto e fatto sul secondo conflitto mondiale quanto poco si è raccontato del “dopo”, sopratutto mettendosi nei panni dei “vinti”. Land of Mine racconta l’agghiacciante sorte dei ragazzini tedeschi prigionieri usati per sminare le spiagge della Danimarca e si concentra su un piccolo gruppo sorvegliato dal tormentato e violento sergente Rasmussen e dell’agghiacciante quotidianità dove la speranza non esiste e la morte è solo questione di leggerissime distrazioni. E sono i legami che si vengono a creare in questo isolazionismo coatto a straziare, con grandissima capacità ed abilità del danese Martin Zandvliev ad evitare ogni trappola retorica e melensa (anche se bisogna chiudere un occhio sull’evitabile minuto finale che tende a far filtrare qualche raggio di speranza) tenendo una tensione altissima capace di far sudare freddo in più di un momento. Lavoro tanto bello quanto triste, coraggioso e necessario, sfacciatamente orgoglioso della sua impostazione classicissima da dramma (post) bellico e capace di rimanere nella memoria. Da vedere senza pensarci due volte.

the witch 2016The Witch: Il disfacimento di ogni istituzione, il bigottismo, la fede cieca e fondamentalista che cede davanti a quello che viene chiamato “male” per arrivare alla liberazione di se stessi, spogliandosi dei propri abiti, distruggendo la propria famiglia, aprire gli occhi e volare liberi e potenti. Profondamente complesso, oscuro e sensuale, The Witch non ha paura di puntare altissimo (sembra Lars Von Trier prodotto dalla Hammer) e di essere “frainteso”, ma il film di Robert Eggers ovunque lo si guarda rimane un film affascinante, misterioso, pieno di sottotesti e simbolismi che è impossibile cogliere con una singola visione e dove la maniacale ed ossessiva ricostruzione del contesto storico, così curata fino al minimo dettaglio (dalla recitazione in inglese arcaico, alla coltivazione, agli estratti di dialogo presi da scritture vere di verbali d’epoca, etc..), avrebbe fatto felice pure Luchino Visconti e garantisce sopratutto in sala, un’immersione rara e veramente spaventosa. Un monolite nero come la pece che lascia storditi e inquieti. Semplicemente un capolavoro, tra i più belli in assoluto degli ultimi anni.

neon demon elleThe Neon Demon: Ci sono opere che sono oltre ogni percezione e giudizio, “oggetti” informi che stanno là, odiati e venerati, interpretabili correttamente sia in un modo che nel suo esatto opposto. Qualche anno fa lo fece Gaspar Noè con “Enter the void”, quest’anno lo ha fatto Nicolas Winding Refn che con questo lavoro si lancia nel punto di non ritorno del suo percorso artistico. The Neon Demon è un feticcio eretto in nome della bellezza e dell’ossessione/glorificazione di questa, un incubo ossessivo che si insinua visione dopo visione, che cristallizza i suoi interpreti in immagini potentissime tanto “glamour” quanto spaventose, aliene. Un lavoro respingente, unico e alieno. E’ il “Vanishing Point” di uno degli autori più interessanti viventi che dopo questo lavoro potrà solo reinventarsi da capo. The Neon Demon non ammette vie di mezzo e per quanto si tenta di rassicurarsi sminuendolo senza comprenderlo lui sta lì, ammaliante e spaventoso, destinato a rimanere.

Carol: Todd Haynes si aggiudica con questo film il melò dell’anno. Tornando idealmente alle atmosfere del suo capolavoro “Lontano dal paradiso”, ancora una volta riesce a confezionare un film che sembra venire da un altra epoca e costruisce un melò adattando uno dei primi libri non-gialli di Patricia Highsmith, con una classe e una delicatezza veramente d’altri tempi. Carol è una storia d’amore,o meglio, della maturazione di questo sentimento tanto che il fatto che sia un amore omosessuale mal visto dallo sguardo etico “borghese” è secondario al cuore dell’operazione. Quello che rimane ben impresso e funziona in Carol (e su cui Haynes si sofferma giustamente a raccontare) sono i silenzi, i sguardi, i piccoli gesti e quanto questi possono essere lancinanti e decisivi per cambiare la propria vita. Va detto che niente sarebbe stato così efficace se per il resto non ci fossero state la messa in scena meravigliosa (scenografie, costumi, fotografia di livelli altissimi) e sopratutto una coppia di attrici magnifiche come la sempre splendida Cate Blanchett e una incredibilmente brava Rooney Mara.

swiss army manSwiss Army Man: E’ possibile parlare del senso della vita, della solitudine, di fallimento, dell’amore e della morte il tutto attraverso scuregge, erezioni-bussola e un cadavere putrefatto multiuso? Assolutamente si ed è possibile pure commuoversi e ridere in pari misura. Lo spettro di emozioni che si vivono durante la visione dell’esordio dei due “Daniels” è ampissimo. La stravaganza e la coerenza del finale fanno perdonare qualche minuscolo e lieve calo di ritmo qua e là, ma nel complesso è da spellarsi le mani con gli applausi. Daniel Radcliffe/Paul Dano coppia dell’anno ma davvero abilissimi sono stati i due registi esordienti a non cadere mai nel fighetto o nello strambo fino a se stesso. Quella tangibile e persistente “tristezza cosmica” che attraversa l’ intero racconto come un doloroso veleno, contribuisce a porre Swiss Army Man in quel malinconico e strambo Olimpo dove vivono opere uniche come “Nel paese delle creature selvagge”, “Wilfred! ed “Eternal sunshine”. Un Olimpo in cui si vorrebbe rimanere immersi per sempre e che è capace di far riscoprire il senso della vita anche al più fottuto dei misantropi.

elle-paul-verhoeven-huppertElle: Paul Veroheven è un maestro del cinema a cui non gli verrà mai concesso giusto tributo. Nonostante ora qualche voce in più inizia giustamente a riconoscerlo e considerarlo, è ancora troppo poco. La totale anarchia che lo ha sempre accompagnato, il caustico senso del grottesco e dell’ossessione che ha infilato in ogni suo film, l’intelligente provocazione con cui ha sempre descritto personaggi femminili allucinanti, arrivano al compimento con questo Elle che è un po’ il film “d’autore”(scusate il termine) di Verhoeven ed è effettivamente il suo capo d’opera. Il totale abbandono di ogni sentimento per affrontare un mondo pazzo che si incarta su se stesso. “Lei” subisce uno stupro ma continua come se niente fosse a gestire la sua vita e quella degli atomi impazziti che la circondano con impassibile distacco e con il cinismo come unica arma. Nel mezzo c’e’ la vendetta ma forse più che vendetta, è una curiosità verso l’unica forma di emozione possibile. La più inconcepibile, violenta ma anche “pura”. L’unica energia in una vita fatta di plastica e di vuoti, che vivono scegliendo di non voler vedere la verità pur di andare avanti. E “lei” così, spietata e folle è l’unica che ha capito. L’unica che riesce a vedere. Isabelle Huppert immensa come sempre, ma è il folle maestro olandese che esce fuori ancora una volta su tutto e tutti, distruggendo con anarchico sberleffo ogni regola e imposizione cinematografica. Un capolavoro unico, straniante, divertente, doloroso.

Il Club: Se nei salottini scoreggioni radical chic si saluta Xavier Dolan come il nuovo Orson Welles (limortaccivostri), per fortuna nel cinema vero c’è Pablo Larrain che inarrestabile sforna un capolavoro dietro l’altro lasciando ogni volta senza parole. E con El Club sforna il suo film più nero, doloroso e straziante (molto di più del funereo “Post-mortem”) e lo fa prendendo l’anima oscura della chiesa per parlare ancora una volta di un paese intero (ma direi purtroppo di un mondo) dilaniato da demoni implacabili, rinchiusi in una prigione senza sbarre e guardie condannati a vivere in quell’angolo oscuro dove tutti volgono lo sguardo. Un condanna perpetua che passa attraverso il sangue e l’impossibilità di espiare le proprie colpe che Larrain sembra aver voluto girare come un horror gotico, tra lenti sfocate di tarkovskijana memoria e (voluti?) rimandi fulciani al capolavoro “Non si sevizia un paperino”. Un film sconvolgente, durissimo che ti si pianta dentro come un cancro e cresce inesorabile, forse al momento il punto più alto di un cineasta che senza mai sbagliare un colpo è da considerare senza dubbio tra i più grandi in attività. E che con Neruda e Jackie non sembra intenzionato affatto a fermarsi.

jeeg robotLo chiamavano Jeeg Robot: La più gradita e sorprendete sorpresa del cinema italiano non poteva mancare all’appello. La dimostrazione che un cinema diverso, intelligente e capace di parlare ad ogni fascia di pubblico è ancora possibile. Poi è vero che non tutto fila sempre liscio (gli ultimi venti minuti in cui arriva il climax si sgonfia parecchio e risulta abbastanza trascinato via), che se da un lato sbaraglia a man bassa tutta la concorrenza italica meno scontato può essere il suo peso in un mercato globale, ma Gabriele Mainetti compie davvero il miracolo che tanto si aspettava. E lo fa sia dal punto di vista produttivo, quanto artistico perché nella prima ora e mezza di film c’è tutta la potenza, il cuore (e acciaio) che mancava da troppo tempo. La capacità di emozionare, commuovere scegliendo toni duri e tragici ricoperti da una splendida glassa grottesca è materiale raro e che va sostenuto senza pensarci due volte. Sicuramente spesso si è pure esagerato ad esaltarlo, ma vaffanculo è giusto così: ora si aspetta trepidanti la sua prossima mossa.

American Guinea Pig: Bloodshock: Prosegue alla grandissima la versione americana dell’infame serie giapponese Guinea Pig, che dopo aver onorato l’originale con l’intelligente primo capitolo la saga, sorprende tutti e piazza questa bomba atomica di ferocia e solitudine che colpisce lo stomaco e tramortisce i sensi. Elegantissimo nella sua scarna messa in scena, Bloodshock è un potentissimo film estremo che spicca dal caotico pentolone dell’underground horror proprio per la cura formale e teorica che mai ti aspetteresti da un lavoro del genere. La prigionia nella sua forma più inconcepibile e la tortura (agghiaccianti alcune sequenze che nulla nascondono all’occhio) un contrappasso necessario che porta alla purificazione. L’amore nasce attraverso la fuga e il sangue, ed è l’unica cosa che riporta colore (vita) e identità. Mai si sarebbe pensato di trovare questi elementi in una saga come Guinea pig, che in questa incarnazione americana si eleva a vero e proprio contenitore di orrori con una forte anima all’interno. L’attesa per il prossimo capitolo (pare sulla “religione”) è ovviamente altissima.

anomalisaAnomalisa: Ritorna alla grandissima Charlie Kaufman con tutta la depressione e la cappa di sfiga che impregna le sue opere e lo fa con il più bel film di animazione dell’anno: un capolavoro in stop motion finissimo, complesso e straziante, un guardare senza paura il vuoto dentro di noi per comprenderlo e forse anche accettarlo. Anomalisa è un film che rende tristi e che fa male nella sincerità con cui parla, ma è anche un lavoro che cresce visione dopo visione, cosi pieno di simboli, letture, dettagli che sembrerà ogni volta cogliere qualcosa di nuovo. Quella tristezza “calda” che ti avvolge e quasi ti consola. Un film di emozioni purissime, “adulto” (e non perché i pupazzi scopano) e soffuso, capace di rimanere dentro in maniera sottocutanea, silente e sempre persistente: Ritrovare se stessi e il senso di quello ci circonda, senza avere più paura dei nostri Babadook. Da brividi.

Hardcore Ilya NaishullerHardcore!: Eccolo il guilty pleasure totale del 2016, un film (?) che prende alla lettera il titolo che porta e si lancia impazzito e incontrollato verso l’assurdo fottendosene di tutto e tutti: un uomo si risveglia mezzo robot e la sua moglie scienziata viene rapita da un misterioso tipo prima che riescano a completarlo. Da lì fuga e vendetta. Il tutto attraverso la soggettiva del muto e bionico protagonista. Hardcore fin dai primi minuti è un carrello di azione, violenza ed ironia che non si ferma mezzo secondo, prende la concezione rozza e caciarona del duo Neveldine/Taylor e gli mette l’esponente all’infinito facendo sembrare “Crank” o “Gamer” un film di Bela Tarr. Puro cinema-videogame con pochi fronzoli, Hardcore si ama o si odia e non ha alcuna pretesa di essere accondiscendente per piacere a tutti: chi ha la predisposizione a stargli dietro godrà di alcune tra le più folli sequenze action degli ultimi anni, un bodycount folle a cui è impossibile stare dietro e le esilaranti morti del simpaticissimo Sharlto Copley. Per tutti gli altri c’è Captain Fantastic.

Il figlio di Saul: Annichilente discesa nell’orrore umano e nell’inferno di morte di un campo di concentramento dove un uomo dei sonderkommando, gli ebrei destinati a collaborare con i nazisti per bruciare i cadaveri delle camere a gas e delle varie esecuzioni, pensa di riconoscere suo figlio in una pila di cadaveri decidendo così di trovare a tutti costi un rabbino per potergli dare una giusta sepoltura. Un atto di umanità più forte di ogni rivolta e anche più forte della morte stessa. Per un ora e mezza siamo stretti sul primo piano di Saul, lasciando sfocato e fuori campo l’inconcepibile abisso di morte che lo circonda. Durissimo, un viaggio all’Inferno senza respiro ed emotivamente massacrante, privo di retoriche e falsità. Registicamente sublime, davvero un capolavoro.

godzilla resurgence tokyoShin Godzilla: Dopo l’eccezionale e spettacolare rivisitazione americana dell’ottimo Gareth Edwards, il re dei mostri ritorna nella sua patria d’origine inaugurando quello che in tutto e per tutto è un nuovo corso del lucertolone radioattivo. E questa volta le cose si fanno serissime: la visione apocalittica di Hideaki Anno, maturata con Evangelion, sposa in modo sublime il senso della catastrofe di Shinj Higuchi già testata nei due live action di “L’Attacco dei Giganti” e insieme riescono a dar vita al più cupo, spaventoso e complesso film della serie. Un Godzilla in perenne mutazione, gigantesco e dal design mostruoso che distrugge tutto mentre gli umani cadono come mosche e le relazioni politiche internazionali mostrano le loro crepe e i mai sopiti contrasti. Dentro c’e tutto e di tutto e se qualche verbosità di troppo a volte sembra rallentare i ritmi, prontamente si riesce con abilità a dare continuamente spazio alla spettacolarità catastrofica che si pretende da un film simile, soddisfacendo continuamente tanto l’occhio quanto il cervello. Ad accompagnare tutto le meravigliose musiche da pelle d’oca dell’immenso Shiro Sagisu che riescono a tirare fuori il pathos in ogni scena: l’attacco notturno devastante di Godzilla è qualcosa che difficilmente si può dimenticare e il frame finale apre la saga verso territori assolutamente inediti e misteriosi. Il Re è tornato (in patria) ed è qui per comandare.

MINZIONI EXTRA

Hitchcock/Truffaut: Semplicemente il cinema. Vedere e sentire due dei più grandi cineasti di sempre che parlano di cinema (il documentario si concentra su La donna che visse due volte) è pura emozione che non può e non deve passare inosservata agli occhi di nessuno. Interessanti e quasi mai banali i vari commenti di grossi nomi della cinematografia contemporanea (da Fincher a Scorsese, passando per Anderson, Assayas, etc..), ma indubbiamente il cuore di tutto e il valore per cui questo documentario è imperdibile è tutta per Hitch/Truffaut. La voglia di sentire di più oltre l’ora e venti di documentario è fortissima, ma questo compendio video di uno dei testi fondamentali di chi vuole occuparsi di cinema, è semplicemente imperdibile e da riguardare allo sfinimento.

Heart of the Sea - Le origini di Moby DickHeart of the Sea – Le origini di Moby Dick (questo è uscito ai primi di dicembre del 2015, ma sticazzi): Moby Dick è uno dei libri più belli e complessi mai scritti, impossibile da trasportare al cinema senza sminuirne significati e potenza simbolica (neanche John Huston ci riuscì nel suo comunque apprezzabile adattamento). Ron Howard, il più “classico” dei registi hollywoodiani di blockbuster, fa il miracolo e trova l’unica chiave possibile di racconto: mette in scena Melville stesso che si fa raccontare la storia di cosa è accaduto all’ultimo superstite dell’Essex (la nave originale da cui poi nascerà il Pequod) e del loro scontro con l’enorme balena bianca. Ma questo è solo l’inizio perché The heart of The sea non si ferma al semplice scontro, ma si concentra sopratutto su tutto il dopo, mettendo in scena quello che in “Vita di Pi” era metafora, citando Edgar Allan Poe con Gordon Pym senza farsi mancare anche una bella stoccata contro l’industrializzazione capitalista. Il tutto con una messa in scena splendida, sontuosa, emozionante e un cast splendido. Non se lo è inculato nessuno, ma è uno di quei lavori ammantati di fascino e intelligentemente dosati tra spettacolo e profondità emotiva. In tempi così sterili e vuoti, non è affatto poco e questo rimane uno dei lavori più belli del fu Richie Cunningham.

When Black Birds Fly: Dopo l’annichilente “Where the dead go to die”, il folle Jimmy ScreamerClauz ci regala un nuovo incubo psicotropo e violentissimo. Un assalto terrorista spietato alle sinapsi degli spettatori e una nuova delirante discesa in un mondo da incubo che richiede davvero una predisposizione particolare (e nervi saldi) per essere affrontato e digerito. Più costruito rispetto al primo film, forse meno estremo nei concetti ma ancora più schizzato nella messa in scena, un film che va oltre l’animazione e oltre l’orrore. Una delle esperienze più allucinanti (e allucinatorie) degli ultimi. Per gli amanti del weird, imprescindibile.