Home » Cinema » Horror & Thriller » A Quiet Place – Un Posto Tranquillo: la recensione del film di – e con – John Krasinski

Voto: 6/10 Titolo originale: A Quiet Place , uscita: 03-04-2018. Budget: $17,000,000. Regista: John Krasinski.

A Quiet Place – Un Posto Tranquillo: la recensione del film di – e con – John Krasinski

18/12/2019 recensione film di Alessandro Gamma

Emily Blunt è protagonista al fianco del marito regista di un horror che parte da una premessa ardita ed evocativa, ma il cui sviluppo zoppica tra pressapochismo e situazioni già viste altrove

Una trovata geniale basta a fare di un film, un buon film? Dalla risposta a tale semplice, eppur insidioso, quesito dipende il giudizio su A Quiet Place – Un Posto Tranquillo di John Krasinski, che affianca anche davanti alla macchina da presa la moglie Emily Blunt nel ruolo di protagonista e padre di diversi pargoli in uno scenario post apocalittico.

Piuttosto convenzionale nello schema narrativo e nell’immaginario survivalista, l’horror segue difatti le vicissitudini di un gruppo di superstiti, nello specifico una famiglia (dettaglio che incrementa in modo esponenziale l’appeal emotivo), ma mette in scena un’idea poco sfruttata: le terribili creature che hanno invaso la Terra – o almeno gli Stati Uniti – sono cieche e si avventano sulle prede seguendo esclusivamente i rumori che queste ultime producono (in qualche modo ricordano i T-Rex o i Velociraptor di Jurassic Park e non solo per questo aspetto).

Nulla di nuovo anche in tal senso allora? No, se non fosse che partendo da tale assunto il regista, anche sceneggiatore al fianco di Bryan Woods e Scott Beck, ha deciso di girare proprio per tale ragione un film pressoché muto!

Tale ardita scelta stilistica (soprattutto commercialmente parlando) è palese subito nell’apertura ad effetto: vediamo gli Habbott, Evelyn (Blunt), Lee (Krasinski) e i figli Regan (Millicent Simmonds), Marcus (Noah Jupe) e Beau (Cade Woodward), che vagano in punta di piedi in un negozio di alimentari palesemente abbandonato da tempo; è il giorno 89 e sono alla ricerca di medicinali. L’atmosfera sinistra fa subito presagire che in quel luogo qualcosa di terrificante sia capitato e il terrore negli occhi dei quattro, Beau è troppo giovane per capire la situazione, conferma tale supposizione.

Il piccolo intanto trova un modellino di Shuttle con cui vuole giocare, ma i genitori prontamente gli dicono a gesti di lasciarlo lì perché “è troppo rumoroso” e gli tolgono le pile. Tuttavia Regan, prima di andare via, glielo ridà, e il bambino riprende anche le batterie che lungo alla strada verso casa reinserisce. Così d’improvviso il giocattolo si mette a suonare, dai boschi emerge velocissimo un non definito mostro e …

Sono passati solo una manciata di minuti dall’inizio, eppure la tensione è subito alle stelle. Con pochi, ben amministrati tocchi viene delineato un agghiacciante disegno d’insieme, a cui poi vengono aggiunti via via un serie di dettagli, lasciando però il tutto saggiamente avvolto nell’indefinitezza (arte imparata da Cloverfield probabilmente, non spingiamoci più indietro di così). Nulla è spiegato nei 100′ di A Quiet Place – Un Posto Tranquillo.

I tre sceneggiatori seminano invece indizi tesi a far salire il mistero e a lasciare sempre più chi guarda in uno stato angoscioso; così viene inquadrata davanti a un negozio una pagina di un quotidiano (citazione di georgeromeriana memoria), poi diversi ritagli di giornale che il padre tiene nella sua zona radio e dei monitor di vigilanza, in ultimo gli appunti presi nel corso dei mesi dell’uomo. Insomma, ci viene dato sapere il minimo indispensabile per suscitare la nostra curiosità, e questo è certo un bene.

A ciò si somma l’esaltante e inventiva premessa: il fatto che tutti i personaggi debbano per sopravvivere non emettere alcun suono superiore a pochi decibel, nemmeno i bisbiglii sono permessi. Inoltre, a completare il cerchio, scopriamo sin da principio (dall’apparecchio nella cavità timpanica), che Regan è affetta da una qualche forma di sordità, il che spiega il motivo per cui tutti i suoi consanguinei siano convenientemente in grado di dialogare fluentemente con il linguaggio dei segni.

Non solo, tale escamotage permette di giocare anche evocativamente con l’alternanza di muro di suoni, colonna sonora (di cui si sarebbe volentieri anche fatto a meno considerato il preambolo) e assenza di rumori, quando si ripropone (e ciò avviene spesso) il punto di vista – o meglio di udito – dell’adolescente. Infine, sarà proprio il suo deficit a costituire il fulcro per ulteriori sviluppi che, seppur con un meccanismo diegetico un po’ ingenuo (una forma tecnologica del deus ex machina a dirla tutta), risultano comunque sia abbastanza coerenti.

Meno attenzione viene destinata al contrario, purtroppo, alla verosimiglianza di molti dei particolari relativi all’ambientazione e allo sviluppo della trama che, senza essere nemmeno troppo puntigliosi, contengono non poche imprecisioni e fanno storcere il naso agli spettatori più attenti.

Si tratta di quella fastidiosa patina o forzatura che contraddistingue sovente il cinema americano non orgogliosamente indie, che abbellisce ed edulcora per rendere accettabile gli aspetti più ruvidi di un racconto che altresì potrebbe scandalizzare o intristire eccessivamente il grande pubblico (si tratta comunque di un prodotto PG 13, prodotto peraltro della Platinum Dunes di Michael Bay).

Da un lato una viene così immolata all’altare del compromesso ogni estrema bruttura e sappiamo già che certi personaggi non sono assolutamente sacrificabili, benché la loro morte in certi frangenti sarebbe ‘naturale’ e/o auspicabile; più volte, soprattutto nella seconda e più deludente metà del film, si ricorre a un enfatico montaggio alternato e a numerose vie d’uscita poco credibili, anzi addirittura un po’ penose (quando vedrete la sequenza della doccia capirete).

Ad essere precisi, all’inizio di A Quiet Place – Un Posto Tranquillo esiste una promettente deviazione dalla suddetta norma in termini di “censura mortis”, ma non deve in fondo stupire perché è facilmente spiegabile quale mezzo per costruire il pathos e il travaglio interiore dei protagonisti. Inoltre, vizio che accomuna molti sceneggiatori superficiali, si succedono in poche ore (dopo più di 400 giorni senza problemi) un’infinità di sfortunate coincidenze che, guarda a caso, capitano tutte insieme nel momento peggiore possibile (rimanendo vaghi, chiodi, scadenze fisiologiche, ribellioni adolescenziali …) e senza particolare logica consequenzialità, semplicemente per pirotecnico accumulo casuale.

Sempre per tale faciloneria nella scrittura, ci vengono presentati alcuni dettagli suggestivi della quotidianità dei superstiti, quali un’ampia rete di luci colorate intorno ai cambi, una stanza con monitor connessi a una serie di telecamere, un acquaio dove lavare i panni, ma come dopo più di 400 giorni arrivi ancora l’acqua corrente o ci sia l’energia necessaria per la cospicua luminaria è un mistero. Sarà un generatore a benzina (pannelli solari non se ne vedono)? E il rumore?! Al pedante nerd (come chi scrive) tali leggerezze – non esattamente insignificanti in un tale contesto – indispongono non poco.

Infine c’è tutto il contorno. Se l’idea dell’horror muto è inedita ed esaltante, il resto pare una libera e fantasiosa rielaborazione di mille spunti desunti qua e là dalla filmografia horror e fantascientifica del passato.

In particolare, i mostri non vedenti, e molte scene con essi presenti (Krasinski non si fa grossi problemi a mostrarli per intero), paiono il frutto di molteplici fonti di ispirazione, tra cui il già menzionato classico di Steven Spielberg del 1993, gli alieni di Signs (una sequenza di inseguimento in un campo di grano è un mix tra Jurassic Park appunto e l’opera di M. N. Shyamalan, con cui similissima è anche l’ambientazione rurale), i Lurker di Resident Evil che tagliano il metallo come burro, il Demogorgone di Stranger Things con apertura dei “petali” facciali, oppure il Graboid di Tremors che percepisce la posizione delle sue prede attraverso rumori e vibrazioni (si pensi alla versione più piccola e dotata di zampe che compare nella saga al fianco del ‘vermone’ a partire dal secondo capitolo).

Non sveliamo nulla sul punto debole delle creature, ma anticipiamo che potrebbe trattarsi di un fine riferimento a una certa pellicola di Tim Burton

In conclusione, torniamo alla domanda posta in apertura: un’idea molto originale, quella di girare un horror muto, è sufficiente a determinare un giudizio complessivamente positivo? Se la risposta è affermativa, allora a A Quiet Place – Un Posto Tranquillo è un ottimo film, con pochi eguali negli ultimi anni (almeno tra quelli che arrivano da Hollywood); in caso contrario, si tratterà comunque di simpatico intrattenimento, senza troppe pretese a livello narrativo, con diversi spaventi al suo arco e che non dimentica il lato più drammatico della vicenda. A voi l’ardua sentenza.

Di seguito trovate il trailer ufficiale italiano del film: