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Voto: 6.5/10 Titolo originale: 三人行 , uscita: 30-06-2016. Regista: Johnnie To.

Three | La recensione del film di Johnnie To (Sitges 49)

20/10/2016 recensione film di Alessandro Gamma

Il regista di Hong Kong ritorna finalmente alla forma tecnica e inventiva dei suoi tempi migliori in un thriller che ci regala un piano sequenza da manuale di regia

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Quasi uno studio per l’uso del carrello o degli obiettivi per lo zoom, in Three rivediamo finalmente l’ultimamente eclettico Johnnie To esercitare la sua padronanza dello stile visivo, della prospettiva e dell’accumulo. L’ambientazione è un ospedale di Hong Kong, dove un poliziotto corrotto, un criminale e un neurochirurgo incrociano destini e volontà in oltre sei ore di tensione (la pellicola dura solo 88′), formando un triangolo di arroganza e di ossessione distruttiva.

Come nella commedia musicale Office dello scorso anno, il regista abbraccia l’artificio; l’azione è vincolata a una manciata di set, con i costumi e le decorazioni progettati in una ristretta tavolozza di blu e verde menta. per meglio contrapporsi alle occasionali esplosioni rosso sangue. Siamo davanti a uno dei registi più puri che lavorino oggi e questi sboccia nei limiti autoimposti di Three, piegando e riorientando lo spazio della struttura ospedaliera con tende per la privacy, porte a battente e una videocamera in continuo movimento, che mentre si muove regala un film chiassosamente divertente.

Three to locandinaLa sceneggiatura – cui hanno lavorato Lau Ho-leung, Mak Tin-shu e Yau Nai-hoi – imposta subdolamente una premessa a tempo. Shun (Wallace Chung), componente di una banda di rapinatori armati, viene portato dentro di fretta per un intervento chirurgico dopo una sparatoria con la polizia, ma si rifiuta di acconsentire al trattamento all’ultimo momento possibile, intrappolando il poliziotto in capo Ken (il grande Louis Koo) e la chirurgo/dott.ssa Tong (Vicki Zhao) in un reticolo di scappatoie professionali e legali.

Mentre Shun prende tempo, ammanettato a una barella e ferito alla testa, la sua banda continua l’ondata di criminalità, trasmessa in diretta sui televisori girevoli dell’ospedale. La polizia deve collegarlo a un crimine, mentre la Dott.ssa Tong deve operarlo nel più breve tempo possibile, dopo che due precedenti operazioni da lei effettuate a distanza ravvicinata sono finite male. In universo la cui morale sembra girare attorno al corpo umano, tutto si concentra su quale parte di sé i personaggi sono disposti a sacrificare per salvare la faccia.

Il gioco di parole “operating theater (sala operatoria)” viene quindi alla mente, dato che Three rigira l’uso eccessivo di termini medici inglesi in una serie di gag iniziali piuttosto simpatiche; la chirurgia diventa la messa in scena di una performance, mentre le tende del reparto neurologico creano gli archi di un proscenio per intrighi e depistaggi. Il film è pervaso da un senso di teatralità, dal set-up sonoro ai personaggi clowneschi, che saltano dentro e fuori da questo conflitto a tre rami. L’immaginario Victoria Hospital – un riferimento sia a entrambi i nomi degli ospedali coloniali realmente esistenti a Hong Kong, sia al tema di Three della vittoria di Pirro – è un posto assurdo in cui i pazienti complottano e vagano liberi.

Shun canticchia Mozart e mette in mostra la sua buona fede intellettuale attraverso citazioni (da Bertrand Russell alla biologa marina sovietica Avenir Tomilin), il tutto mentre tiene a bada il necessario intervento chirurgico; è disposto a sacrificare il suo cervello per provare la sua intelligenza, proprio come Ken è disposto a infrangere la legge per acciuffare un criminale. Solo alla dottoressa Tong viene fornito un backgound; lei è la figura più moderna e simpatetica, stretta nel mezzo di questi due tipi classici.

three johnnie toCome nel superbo Drug War, che schierava Koo come un boss della droga della mainland Cina il quale diventava un informatore per evitare la pena di morte, i colpi di scena e i doppi giochi sono costruiti in vista di un finale tragico ed ex post inevitabile. Uomini con più orgoglio che tempo sono stati la cifra distintiva della carriera di Johnnie To, ma qui gli si abbina un’estetica frenetica e squassante; forse il suo piano dichiarato pubblicamente di andare in pensione entro cinque anni ha qualcosa a che fare con questo … intento che subito traspare dalle eccentriche arditezze, primi tra tutti i tagli della mdp in diagonali stravaganti, perforate dagli zoom o allungate con obiettivi grandangolari.

Ci sono riprese sopra le teste, fotogrammi dentro fotogrammi (tra cui una sequenza filmata attraverso un foro di proiettile dentro un cranio), movimenti frenetici che rasentano lo slapstick e persino quello che sembra un riferimento esoterico a Le Grand Bleu di Luc Besson, che fa sia da contrappunto allo schema di colori di Three sia da legame con le tematiche espresse in entrambi i film.

Gli artifici e le fantasiose composizioni visive di Johnnie To trasformano ogni momento di suspense o cambiamento del punto di vista in un gesto coraggioso. La tensione monta tra gli ego fuori scala prima di esplodere (letteralmente…) negli ultimi 15 minuti. Green Screen e trucchi digitali non sono mai stati un punto di forza per questo artigiano del set old-school e il lavoro un po’ approssimativo degli effetti nel climax si rivela solo una fonte di distrazione occasionale.

Eppure dà la possibilità a Johnnie To di intingere l’hybris dei suoi antieroi nel piatto dell’eccesso creativo: una sparatoria presentata come un’ininterrotta sequenza di quattro minuti, realizzata in parte grazie alla capacità degli attori di muoversi al rallentatore. In parole povere, un lungo e articolatissimo piano sequenza, una gemma di tecnica (attoriale e registica) senza pari nella storia del cinema recente. Bentornato Johnnie.

Il trailer di Three: