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[recensione libro + intervista] Il nuovo cinema di Hong Kong di Stefano Locati ed Emanuele Sacchi

30/01/2017 news di Sabrina Crivelli

Un'affascinante disamina del cinema dell'ex colonia britannica, che delinea una storia appassionata dell'ultimo ventennio, dal ritorno alla Cina continentale a oggi. Ne abbiamo parlato coi due autori

Colonia inglese fino al 30 giugno 1997, Hong Kong in tale fatidica data torna a far parte della Repubblica Popolare Cinese, e con la megalopoli la sua industria e il suo cinema, soprattutto. Sono proprio le peripezie di quest’ultimo, dalla forzata riunione con il continente ai giorni nostri, al centro dell’indagine sviluppata in Il nuovo cinema di Hong Kong. Voci e sguardi oltre l’handover, scritto a quattro mani da Stefano Locati ed Emanuele Sacchi (Bietti Eterotropia, Milano 2014), con può vantare una lunga prefazione del regista e critico francese Olivier Assayas (Sils Maria, Qualcosa nell’aria). Meticolosa indagine su un fenomeno variegato, non sempre immediatamente definibile e ancora in fieri, il libro è suddiviso in diverse sezioni: una storica generale, una relativa alle pellicole componenti la filmografia, infine una composta da interviste, tutte tese a comporre infine un’approfondita trattazione, da cui immediato traspare il coinvolgimento e l’affezione degli autori per il tema affrontato.

A contraddire, almeno in parte, coloro – non pochi – che da tempo inneggiano a gran voce alla fine definitiva del suddetto prolifico e originale epicentro cinematografico, il saggio riesamina anzitutto in un excursus gli eventi occorsi nell’ultimo ventennio, non limitandosi alla mera prospettiva filmica, di industria, produzioni, pellicole, registi e interpreti, ma guardando anche alla macrostruttura, al panorama politico ed economico, e all’influenza che questa sortisce sull’oggetto d’indagine. Innegabile è allora l’impatto, terribile e quasi più influente del verificarsi stesso del fatto concreto, delle aspettative, dell’avvento di quel tanto paventato ritorno sotto il giogo del governo centrale, nonostante il principio più volte professato del “una nazione, due sistemi”. Il timore della disfatta ha determinato dunque un processo di autodistruzione lesivo più d’ogni altra variabile esogena, con l’esodo verso Hollywood di grandi nomi, quali Tsui Hark o Ringo Lam, nonché una spregiudicata politica delle case di produzioni autoctone per spremere tutto il possibile prima della catastrofe, o di quella che era ritenuta tale.

hong kongEppure c’è ancora speranza, non tutto è perduto: rinata come l’Araba Fenice, Hong Kong ha dimostrato la capacità di relazionarsi fruttuosamente con Pechino e di influenzare a sua volta quanto lassù girato. Ne sottolineano dunque anche i presupposti promettenti gli autori Locati e Sacchi, in particolare gli accordi CEPA, che hanno favorito co-produzioni pan-cinesi e panasiatiche, e ne prendono in esame genere per genere tutti i protagonisti e le opere più rilevanti. A ciò si accompagna, a condurci attraverso la labirintica filmografia honkonghese, delineata prima da un punto di vista più teorico, un compiuto vademecum delle pellicole realizzate dal 1998 ai giorni nostri, stilato con l’aiuto di diversi collaboratori che hanno preso parte al certosino lavoro, nonché un capitolo relativo ad una selezionata rosa di produzioni risalenti al pre-handover, a sottolineare le origini e le connessioni con gli attuali sviluppi. A completare il tutto sono, in ultimo, le parole di alcune icone indiscusse della “città-cinema”, da Peter Chan ad Ann Hui, da Johnnie To a Herman Yau, narrano le loro esperienze passate e presenti, fornendoci una testimonianza di come sia stato e come sia lavorare ai tempi del post-handover.

Affresco avvincente e particolareggiato della storia delle ultime due decadi del cinema della ex colonia britannica, Il nuovo cinema di Hong Kong fornisce uno sguardo coinvolgente su uno dei centri produttivi più affascinanti e prolifici dell’Asia e non solo.

Di seguito invece trovate la chiacchierata fatta con i due autori per approfondire come è nato il volume e qual è la situazione attuale del cinema dell’ex colonia:

Cominciamo dalla prefazione. Come siete entrati in contatto con Olivier Assayas e perchè proprio lui?

SL: Abbiamo subito pensato ad Assayas per la prefazione. Da un lato sia io che Emanuele adoriamo il suo cinema. Dall’altro, aspetto più importante nel caso specifico, Assayas è un profondo conoscitore del cinema cinese, taiwanese e hongkonghese, tanto che negli anni Ottanta è stato tra i primi in Occidente a scrivere della New Wave hongkonghese per i Cahiers du cinéma. Siamo stati molto fortunati e ha accettato non solo di scrivere la prefazione, ma di presentare insieme a noi il libro durante il Festival di Locarno.

ES: Sottoscrivo quel che dice Stefano. Oltre che essere uno dei registi contemporanei più importanti in circolazione, Olivier Assayas è stato un critico per i Cahiers du Cinéma e da sempre un punto di riferimento sul cinema dell’Estremo Oriente, che ha contribuito a far conoscere in Occidente. E’ anche grazie ad Assayas se Tsui Hark o Patrick Tam sono stati considerati autori anziché registi di un cinema popolare e perlopiù incomprensibile. Olivier è stato gentilissimo e ha dimostrato da subito di apprezzare il nostro progetto e di comprenderne l’intento: la sua prefazione è come se desse la chiave interpretativa ideale di quel che segue.

the-killer-chow-yun-fatDa che cosa è nato l’amore per il cinema asiatico, in particolare quello di Hong Kong, che vi ha portato alla stesura del libro, nonché al vostro impegno all’interno di Asia e HK Express?

SL: È nato a metà anni Novanta, era un periodo di transizione, si parlava tanto del cinema asiatico, ma era ancora difficile reperire i film, al di fuori dei festival internazionali. Per me è iniziata una lunga ricerca, con acquisti e scambi, in Italia e internazionali (era ancora l’epoca delle VHS!). I primi film visti sono stati una folgorazione – e anche quelli successivi. Molti di quei film erano di Hong Kong, il primo amore. Da quella passione sono nati prima hkx.it e poi asiaexpress.it, creati insieme a Matteo Di Giulio. L’idea era condividere un percorso con gli altri appassionati e mettere ordine nelle numerose visioni. Sono seguite valanghe di ordini di DVD (nel frattempo si era entrati nell’epoca dei DVD e soprattutto dei negozi online!).

ES: L’amore per il cinema di Hong Kong per me ha avuto inizio con John Woo e Wong Kar-wai, in particolare con The Killer e Hong Kong Express, attraverso VHS diffuse in maniera carbonara e di dubbia qualità. Da un lato sparatorie infinite, dall’altro tipi che parlano con gli asciugamani in romcom mai viste prima: una folgorazione. In un attimo ero consapevole dell’esistenza di un cinema diverso da tutto quello a cui eravamo abituati, speciale, ma al contempo capace di comunicare moltissimo a distanza di chilometri. A quel punto cresceva la curiosità per un mondo. Mi domandavo, o meglio ci domandavamo noi carbonari: “Ma il resto sarà così? Sarà altrettanto folle?”. Ci volle una retrospettiva al De Amicis di Milano, a handover appena avvenuto, per convincerci che, sì, c’era un mondo intero da scoprire, strano, interessante, originale, fresco. Dall’acquisto di pacchi di DVD dall’Asia (con le puntuali telefonate della banca, che temeva si trattasse di una carta di credito clonata) si è passati all’idea di tramandare questa cosa, di provare a “evangelizzare”, per invitare le menti più aperte a provare la stessa indimenticabile esperienza. Mentre cominciavo a scriverne su Rumore e dove capitasse, ho conosciuto Stefano e Matteo Di Giulio al Far East Film Festival di Udine: loro avevano già fondato hkx.it (Hong Kong Express) e asiaexpress.it e schedato un numero incredibile di film. L’amicizia è cresciuta di pari passo con la collaborazione attiva, finché Matteo mi ha affidato la direzione di Hong Kong Express. Il libro in origine era un modo per festeggiare il decennale del sito e fare/farci un regalo che rimanesse per i posteri, poi l’appetito è venuto mangiando e il progetto è cresciuto sempre più.

Infernal_Affairs_2002_7832383La scelta di trattare quel preciso periodo, quello successivo all’handover, oltre che dalla mancanza di lavori che ne approfondissero l’argomento è stata determinata da altri motivazioni in particolare?

SL: Abbiamo notato un paradosso. Prima dell’handover e negli anni immediatamente successivi, in Europa si parlava tantissimo del cinema di Hong Kong, a livello critico, accademico e tra gli appassionati, ma quel cinema per la maggior parte rimaneva invisibile, se ne poteva scorgere solo la superficie (in parte probabilmente è anche il motivo del fascino che ha esercitato). Invece dal nuovo millennio, quando i film hanno iniziato a circolare più liberamente, tra internet e una miriade di riedizioni e ristampe, il discorso critico si è interrotto, si è continuato a parlare del cinema di Hong Kong come se l’handover, e tutto quello che ha comportato, non fosse avvenuto. Spesso si limitava l’analisi a modelli ancorati a un periodo precedente, non più esistente. Allora abbiamo pensato di provare a colmare questo gap, per dire che il cinema di Hong Kong si era trasformato e cosa poteva comportare quel mutamento.

ES: In primis da quel che dicevi, visto che la saggistica si è sostanzialmente fermata a un’istantanea di fine anni ‘90. Invece non è finito tutto e questo andava detto. La crisi c’è stata, ma solo in parte determinata dall’handover e nel frattempo sono uscite opere importanti ed è cambiato lo scenario. Volevamo provare a spiegare questo in un testo organico, con corollario di interviste a registi e attori raccolte in un decennio e il contributo di colleghi critici e accademici che condividono la nostra stessa “malattia”. Poi volevamo dare il giusto spazio a titoli usciti dopo l’handover, che testimoniano di un cinema tutt’altro che morto. Penso a Infernal Affairs e ai lavori della Milkyway di Johnnie To, ma non solo.

trivisa 2Dopo la stesura del saggio, continuando a seguire quella che è l’evoluzione della produzione cinematografica dell’ex colonia britannica, avete notato particolari evoluzioni, quali sono le vostre aspettative per i futuri sviluppi?

SL: L’evoluzione è continua, perché gli equilibri sono ancora in corso di calibrazione. Sicuramente si è acuito ciò che proponevamo nel libro, la separazione tra delle co-produzioni con la Cina popolare sempre più ricche e spettacolari e dei prodotti locali con budget più limitati, ma più consapevoli della loro peculiare “hongkonghesità”. I film collettivi Ten Years, su un versante più politico, e Trivisa, su uno più nostalgico, sono esempi di come si stia sviluppando questo cinema indipendente cantonese. Sul futuro, da parte mia, sono molto curioso di cosa emergerà dal nuovo cinema commerciale cinese, ibridato con quello hongkonghese. Al momento ci sono ancora prodotti spesso maldestri, ma qui e là si intravedono ottimi presagi per un cinema di genere nuovo. Credo però sia necessario dare tempo a industria e pubblico di crescere e raffinare alcuni meccanismi, per vedere effetti strutturali.

ES: Il cinema di Hong Kong che abbiamo amato in primo luogo non esisterà più, ma già esiste solo in una forma nostalgica e in genere poco significativa. I grandi di quel cinema o hanno smesso, spiazzati e un po’ schifati dal nuovo scenario, o sono diventati gli alfieri del nuovo cinema cinese dai budget giganteschi, come Tsui Hark o Stephen Chow, o autori di richiamo internazionale, come Johnnie To. Il cinema di Hong Kong che sarà sta in film come Ten Years o Trivisa, strettamente legati a un ragionamento sull’identità hongkonghese, in contrapposizione con la Cina ma anche con l’irripetibile passato coloniale. Cosa significa essere di Hong Kong, dopo tutto quel che è avvenuto a Hong Kong? Preservare e capire questo qualcosa è il compito principale del cinema in lingua cantonese odierno. Prodotti a budget più contenuto, dallo spirito indipendente, che per ragioni diverse testimoniano la vitalità di una cinematografia unica. Costretta a cambiare, a ridimensionarsi, ma non a sparire.

three johnnie toQuali sono le principali criticità che a due/tre anni dall’uscita del libro permangono e ve ne sono delle nuove a vostro giudizio, la censura di Pechino, le risorse investite e l’accesso ai finanziamenti in particolare?

SL: Credo la censura sia stata un problema solo nella prima fase, fino agli accordi CEPA per le coproduzioni, nel 2004. Dopo qualche anno da quella data, i rapporti si sono normalizzati. C’è naturalmente una certa autocensura di base su alcuni temi, e un timore verso finali troppo cinici, ma anche da questo punto di vista i rapporti stanno evolvendo velocemente, non è molto diverso da quanto avviene a Hollywood, anche se su temi diversi. Le risorse sono per il momento concentrate sulle coproduzioni più spettacolari: il problema vero allora secondo me è che non si sono ancora create le condizioni per un cinema medio artigianale (che è stata la grande forza del cinema di Hong Kong pre-handover), con budget medi e star di richiamo. E non si è ancora stabilizzato un nuovo star system cinese – al di là di pochi nomi noti.

ES: Rispetto a quando abbiamo scritto il libro la turbolenta situazione politica è deflagrata con l’Umbrella Movement e ora con quel che è successo in Parlamento con i giuramenti dei neo-eletti indipendentisti. Ormai la questione Cina-Hong Kong è un fatto nell’agenda giornaliera delle notizie e dei problemi. Questo da un punto di vista cinematografico può rappresentare un bene, come dicevo prima, uno spunto di grande interesse. Anziché provare a inseguire i fasti di un tempo o competere con la Cina, che sarebbe ridicolo, il cinema di Hong Kong deve imparare a fare un altro “mestiere”, che probabilmente sa fare meglio di chiunque altro.

kung-fu-jungle-donnieQuali ritenete ad oggi i registi più promettenti del panorama hongkonghese e cinese, quali le nuove leve da seguire con più attenzione?

SL: Se si rimane sul cinema di Hong Kong in senso stretto, è diventato più difficile produrre film, e quindi anche i nuovi registi faticano a dare continuità alle loro visioni, bisogna aspettare più tempo tra un film e l’altro. Rimanendo tra i registi che hanno esordito nel nuovo millennio, continuo ad avere fiducia in Derek Kwok o Wong Ching-po, nonostante le loro ultime prove siano altalenanti, mentre mi piacciono la maggior parte dei lavori di registi come Derek Tsang, Heiward Mak, Mak Yan Yan. Se si guarda al versante cinese, c’è grande fermento, specialmente tra il cinema indipendente.

ES: Limitandomi a Hong Kong e ai nomi nuovi e meno noti, direi Derek Kwok, Clement Cheng, Derek Tsang e Jevons Au.

State lavorando a qualche altro volume ora?

SL: Non ci sono ancora scadenze precise, ma abbiamo almeno un paio di progetti a quattro mani a cui vorremmo dare seguito, uno sul nuovo cinema cinese, analizzato sia dal punto di vista indipendente che da quello commerciale, l’altro una monografia completa e ragionata sugli Shaw Brothers. In solitaria, invece, in questo periodo sto ragionando più sul cinema giapponese, contemporaneo, da un lato, e sui jidaigeki dall’altro, su cui mi piacerebbe scrivere qualcosa di approfondito.

ES: Io ho appena ultimato un volume, scritto con Francesca Monti, su Richard Linklater, che uscirà in primavera per Bietti. L’idea di tornare sull’Estremo Oriente e continuare il discorso insieme a Stefano, occupandoci di Cina o di Corea del Sud o Sud Est asiatico, è ben presente per entrambi, così come lo è il progetto di una versione internazionale in lingua inglese de Il nuovo cinema di Hong Kong, aggiornata alla situazione attuale. Spesso non è semplice portare i progetti a compimento, ma non abbiamo mollato e credo che non molleremo mai. Siamo molto hongkonghesi in questo.

Di seguito il trailer internazionale di Infernal Affairs: