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Voto: 7.5/10 Titolo originale: Poesía sin fin , uscita: 23-03-2016. Regista: Alejandro Jodorowsky.

Poesia senza fine: la recensione dell’ultimo film di Alejandro Jodorowsky

12/10/2017 recensione film di Sabrina Crivelli

Autobiografia pervasa di lirismo e meraviglia, il grande Autore cileno ci dona un meraviglioso viaggio per immagini e parole alle origini della sua poesia

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In un dialogo intimistico e visionario, Poesia senza fine (Poesía Sin Fin) di Alejandro Jodorowsky sono le liriche memorie di un grande artista, di un Autore secondo baziniana concezione come non ne esistono più, capace di concretizzare la sua anima in immagini, offrendola in un atto di generosità infinita a noi, spettatori immeritevoli di un simile dono.

Diario iconico della fanciullezza del poeta – cineasta, questo viaggio metaforico e meraviglioso si apre con la rottura netta, la partenza di un giovane Alejandro  (Jeremias Herskovits) mentre il generalissimo Carlos Ibáñez del Campo (Bastián Bodenhöfer) prende il potere nella sua patria natia davanti a un molo popolato di sagome grigie, fantasmi del passato che infestano i ricordi del regista ormai anziano. E’ un’immagine disarmante, in un istante materializza tutta la tristezza di un addio, tutta la crudele voracità del tempo, che scolora ogni memoria. Poi di colpo si torna all’infanzia, al momento in cui Calliope per la prima volta sussurro all’orecchio del poeta ancora bambino, allora represso da una società patriarcale e machista che vedeva tutte le arti come degenerazione femminea.

Poesía Sin Fin di Alejandro Jodorowsky posterIl padre, Jaime Jodorowsky Groismann (Brontis Jodorowsky), è ritratto come un commerciante arido e materialista, espressione di un pragmatismo capitalista che voleva il figlio medico e non certo letterato. La madre, Sara Felicidad (Pamela Flores) si esprime invece solo cantando con sommo patetismo in falsetto, delineando una controparte femminile debole e lacrimevole. Poi c’è la ribellione, nonostante le tante vessazioni, la vera essenza di Alejandro e abbandona le mura domestiche e fugge in nella Casa degli Artisti, dove è condotto dal cugino e in cui è libero di seguire la sua arte.

Poi, improvvisamente svegliatosi adulto, sono seguite le diverse fasi della sua esistenza, dal primo amore con l’irruenta Stella Díaz Varín (che è interpretata sempre dalla Flores come la madre, in identità delle due donne che rimanda all’edipico), il sodalizio con Enrique Lihn (Leandro Taub), il decisivo incontro con Andrés Racz (Ali Ahmad Sa’Id Esber) in partenza per Parigi, poi il tradimento dell’amico stesso con la sua amante, in ultimo, in un percorso circolare, l’abbandono del Cile per non tornare.

Struggente e meraviglio, poco conta la storia in sé, il canovaccio; si tratta infatti di un diario più che di un’autobiografia e proprio la sua natura frammentaria e antinarrativa, come procede in maniera non lineare, ma per momenti topici. Anzitutto c’è la poesia, splendida ed effimera come una farfalla che brucia, è un imperativo a cui Jodorowsky non può che soccombere; inno alla Quinta Arte, il verbo, strumento elettivo per la sua espressione, si unisce all’immagine, in una compenetrazione tra dialettico e visivo.

Da un lato allora sono sovente decantati i versi dei vati, del grandissimo Federico García Lorca, di Nicanor Parra (che compare incarnato da Felipe Ríos), di Jodorowsky, Lihn e della Díaz; ogni dialogo diviene così assoluto, sapienziale, e scardina con la sua immensità la banalità del pensiero comune e borghese, di quel credo meschino che pervade la società cilena del tempo e la famiglia stessa del regista agens e auctor. In uno sdoppiamento a cui si assiste anche nelle sequenze, il regista compare in prima persona e parla a sé stesso da giovane, conscio ormai dell’estrema fuggevolezza della vita e forte di un epicureo distacco che lo porta a una accettazione gioiosa, senza rimpianti, a parte un’irrecuperabile mancanza, a cui però, nel suo immaginario e catartico rivivere il passato, pone rimedio.

Poesía Sin Fin di Alejandro Jodorowsky 1Poi c’è il figurativo che non descrive, non replica il tangibile, ma lo astrae ad altro, lo priva del velo di Maya e ne rivela l’anima nascosta in un’iconografia lirica e psichica, in un susseguirsi di personaggi e azioni paradossali, per questo detentori di verità assolute. Platonico iter nelle idee non deteriorate dalla loro parvenza materiale, ma solo mentali o poetiche, la diegesi corrisponde a una successione di quadri surrealisti in movimento, in cui con ironici cinismo l’estrema bellezza e l’estrema bruttezza coesistono, ossimorici termini dell’esistenza umana.

Così la Casa dei Poeti è popolata di individui assurdi, una ballerina sempre vestita con il tutù che cammina sulle punte, un baritono che canta su un’altalena, un musicista assoluto che nella suo sonata finisce per fare a pezzi il piano, tutti sono simbolo parossistico e insieme incantevole di loro stessi, definiti dalla loro arte e resi unici, oltremodo strani proprio da essa; d’altra parte Alejandro stesso è sempre presentato come poeta, con un misto di reverenza e categoricità.

Poi c’è il Caffé Iris, luogo metaforico, è una sala circoscritta da un perimetro di pareti grigie e disseminata di tavoli in cui giacciono accasciati a piccoli gruppi letterati prostrati dall’alcol e dalla mestizia, tra cui si aggirano distinti e algidi camerieri in livrea dispensando boccali di birra. Con la medesima assurdità rivelatrice è descritta lei, l’amata Stella, “donna terribile”, volgare e idilliaca, che durante la loro storia d’amore letteralmente e figurativamente lo prende per i genitali. Dopo i genitori e l’amata, ideale terzo termine di una trilogia fondamentale nella crescita di Jodorowsky, c’è infine l’amico, Lihn, la cui meditata scelta è data dall’apprezzamento dei suoi versi.

Ne seguiamo le imprese, performance dadaiste o surrealiste, come la scelta di camminare sempre in linea retta senza mai aggirare gli ostacoli, rimandano a una pratica artistica, che vedono la creazione come atto puro, gesto artistico pregno di significato che si oppone al mercimonio borghese. La figura del poeta d’altra parte è derisa, ai margini della società, è un pagliaccio in vesti logore deriso dai rispettabili membri della società per bene, o un Pierrot incoronato d’aureo alloro e alato come un angelo, portato in trionfo da una teoria di diavoli e scheletri, in un carnevale grottesco, quasi ensoriano.

Il surrealismo filmico di Jodorovsky, d’altra parte, ha radici pittoriche e nelle arti visive, debito a cui viene recato direttamente tributo sul finale nel rimando al padre del gruppo francese, al geniale André Breton, che determina una visione psicanalitica e caustica del mondo, nonché il cinema successivo e i grandi capolavori quali La montagna sacra del 1973.

Pieno di gioia e d’amarezza, di meraviglia e di brutture, in Poesia senza fine Alejandro Jodorowsky racchiude tutta la complessità dell’esistenza, e non di un’esistenza qualunque, mediocre, ma quella di un grandissimo artista, la sua.

Di seguito il trailer: