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[riflessione Oscar 2017 + recensione] Perchè Barriere di Denzel Washington SI e Moonlight di Barry Jenkins NO

21/02/2017 news di Giovanni Mottola

Due candidature politicamente corrette mettono in corsa due film molto simili, ma di valore ben diverso

Per essere presi in considerazione per un Oscar bisogna impegnarsi. Non soltanto nel senso di rimboccarsi le maniche e fare un bel lavoro, come è stato per Damien Chazelle e il suo La La Land, ma anche e soprattutto nel senso intellettuale del termine. Scorrendo l’elenco dei film candidati per il 2017 ci si accorge infatti che molti di essi sono accomunati dalla trattazione del tema della diversità e del pregiudizio razziale, come se il fascino di un’opera cinematografica dipendesse non dalla qualità del film in sè ma dal messaggio che intende diffondere. Ecco dunque cadere una pioggia di candidature su un film noioso come Moonlight di Barry Jenkins, che però agli occhi dei giurati ha il merito di essere politicamente ultra corretto. Il ragazzino discriminato di cui racconta la storia è infatti non soltanto nero, ma pure omosessuale: tale causa fa breccia tra i palati fini di Hollywood molto più di altre persecuzioni, quelle contro i Cristiani raccontate da Martin Scorsese in Silence, che dunque è rimasto totalmente a bocca asciutta pur essendo superiore a Moonlight per sviluppo narrativo e per ricostruzione storica e ambientale. Per non parlare dell’ostracismo verso Clint Eastwood (e di chi lavora con lui, leggi Tom Hanks), che pur non avendo realizzato con Sully uno tra i suoi film migliori, sembra essere stato messo in castigo per aver rotto il fronte comune della Hollywood anti-Donald Trump. Siamo complottisti? Forse. Ma sono gli stessi addetti ai lavori (e ai livori) ad esserlo, dal momento che anche Paul Verhoven ha accusato l’Academy di non aver incluso il suo Elle nella categoria di Miglior film straniero non in virtù di un giudizio sull’opera ma per una scelta politica, non essendo stata gradita la storia di una donna che instaura una torbida relazione con il suo violentatore. Siamo un po’ usciti dal seminato rispetto al tema, ma prima di parlarne più nel dettaglio era giusto dare una spiegazione (giusta o sbagliata che sia) su perché un film come Moonlight sia in corsa per il titolo di Migliore dell’anno.

moonlight locandinaAltre infatti non ne troviamo in quest’opera che non riesce a fornire una qualità artistica pari alle sue alte intenzioni. Jenkins porta sullo schermo una piece teatrale di Tarell Alvin McCraney, “In Moonlight Black Boys Look Blue“, nella quale si racconta la vita di un ragazzo povero che cresce nel quartiere più malfamato di Miami per poi trasferirsi da grande ad Atlanta. Tre attori differenti interpretano il ruolo del protagonista, sulla cui figura s’incentra il film, suddiviso in tre diversi capitoli che s’intitolano con i tre nomi con cui viene chiamato, “Little” “Chiron” (il suo vero nome) e “Black”, e che ne rappresentano rispettivamente l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. Se questa trovata consente di condensare in poco più di due ore uno sviluppo temporale notevole, di contro crea però salti logici e buchi narrativi. Si rinuncia a una trama in senso classico per raccontare i problemi esistenziali del personaggio, il cui carattere da adulto conserva i tratti che l’hanno caratterizzato da bambino (rimane taciturno, solitario e infelice), ma in realtà non si colgono appieno i cambiamenti che la maturità porta dentro di lui né quelli della realtà che lo circonda: lo lasciamo adolescente nelle mani della Polizia dopo aver compiuto un gesto di violenza per reagire a una vessazione (la scena più d’effetto, nella quale il protagonista sembra ribellarsi non solo al cattivo compagno di scuola ma anche alla staticità del film), lo ritroviamo anni dopo a capo dello spaccio ad Atlanta; lo lasciamo in una situazione di conflittualità con la madre tossicodipendente, in seguito lo rivediamo quando va a trovarla ormai anziana in una casa di riposo. Cosa sia successo in mezzo non è dato sapere, ma non è questa l’unica incongruenza. L’autore volutamente rappresenta un mondo opposto a quello che ci si immagina, a partire dalla scelta di mostrare la faccia brutta di una città che tutti pensano gioiosa e vacanziera: si vede dunque una madre che non ha quasi nulla di amorevole perché pensa solo alla droga e un boss di quartiere (il suo fornitore) che accoglie in casa propria il ragazzino e lo accudisce come se fosse figlio suo. Jenkins rimane però prigioniero del suo desiderio di sovvertire gli stereotipi, finendo col crearne di nuovi, ribaltati e in certi momenti quasi ridicoli, come nella scena in cui padre adottivo e madre vera si scontrano a muso duro sotto gli occhi increduli del quartiere più malfamato di Miami (e degli spettatori in sala) su chi sia più adatto a crescere il ragazzo. Se non è chiaro perché il boss si prenda a cuore le sorti del primo che passa, ancor meno lo è come possa il ragazzo da grande assumere a sua volta il controllo del mercato della droga, quando fino al giorno prima era deriso per la sua omosessualità e gli mancava di rispetto anche l’ultimo della classe. Sembra che all’autore non importino realismo e coerenza perché troppo preso dal nobile messaggio, che si sostanzia nella scena finale in cui il protagonista ritrova l’amico di sempre, l’unico col quale ha condiviso un’intimità che tanto cara gli è costata agli occhi del branco. In Moonlight c’è dunque un inizio e una fine, ma manca il percorso che da uno porta all’altra, sostituito da qualche virtuosismo registico (la scena ripetuta della madre che urla, una prima volta con audio silenziato e una seconda in tutta la sua potenza vocale) e da un proposito alto e ruffiano a sufficienza da essergli già valso il Golden Globe per il Miglior film drammatico dell’anno.

barriere locandinaUn premio che, a nostro modesto parere, avrebbe meritato assai più Barriere (Fences) di Denzel Washington, rimasto invece addirittura fuori dalle candidature del medesimo, ma ancora in lizza per l’Oscar. Le analogie con Moonlight non mancano dato che anch’esso è la trasposizione di un testo teatrale dal titolo omonimo scritto nel 1983 da August Wilson, che gli valse il premio Pulitzer. Wilson viene accreditato come sceneggiatore del film, pur essendo deceduto nel 2005, ma in realtà era sempre stato restio a concedere i diritti al cinema perché desiderava che il film venisse diretto da un afroamericano. L’attuale progetto è stato avviato nel 2016, dopo che Washington, che già aveva portato in scena Fences a teatro nel 2010, ha manifestato il desiderio di realizzarne la versione cinematografica. Come Moonlight, anche Fences tratta poi il tema della discriminazione – siamo nell’America del 1957 – ma in modo più sfumato, inserendolo in un contesto di più ampio respiro che diventa una riflessione sul rapporto padre-figlio e su quello marito-moglie, sul valore della famiglia e sui sacrifici che essa richiede. L’impianto teatrale è molto presente sin dalla prima scena, una lunga e vivace chiacchierata nel cortile di casa, dove si svolge la maggior parte di un film fatto di molti dialoghi. Nonostante questo, non è verboso ma pieno di ritmo e il merito non va ascritto tanto al Washington regista, comunque assai apprezzabile perché evita ogni stramberia autoriale, ma al Washington attore, che regala una delle sue migliori interpretazioni di sempre (e si giocherà la statuetta col Casey Affleck di Manchester by the Sea) nella parte di un personaggio segnato dalle durezze della vita che lo portano a trattare con severità chi gli sta intorno. Il difficile rapporto con il padre, il carcere in giovane età, la mancanza di un’opportunità nel baseball perché nero, lo hanno reso un uomo incapace di affetto e comprensione verso la moglie e i figli, in particolare quello di secondo letto, con cui i conflitti sono più violenti. Washington è mirabile nel rendere tutte le sfaccettature di un personaggio che, se da un lato appare odioso perché sembra esserci in lui soltanto rigore morale, dall’altro qualcosa di buono deve pur averlo fatto nella vita dato che non perde la stima di chi gli sta intorno nemmeno quando razzola male dopo tutte le sue belle prediche. A tenergli bordone, tanto nella finzione quanto sul set, è l’altrettanto brava Viola Davis (già in tasca l’Oscar per la miglior attrice non protagonista), già sua compagna di scena nella versione teatrale del 2010, che incarna la tipica donna di casa che sembra stare nell’ombra del marito ma in realtà regge sulle proprie spalle tutto il peso della famiglia. E’ lei a desiderare quel recinto che dà il nome al film e che marito e figlio costruiscono nel fine settimana. Lo vuole non per impedire agli estranei di entrare in casa loro, ma per impedire a chi è dentro di uscirne. Soltanto una metafora, perché a tenere unite quelle persone è qualcosa di più importante di quattro assi di legno. Alla Davis tocca anche la scena madre finale, che fa da contraltare a quella iniziale dove è Washington a farla da padrone, come a voler sottolineare la perfetta parità di ruolo sia tra i coniugi nella famiglia sia tra i due attori. Il modo migliore per dare un calcio a ogni forma di discriminazione, senza cadere nella noia e nella retorica che invece contraddistinguono Moonlight. Ma oltre alle analogie con quest’ultimo, è curioso notare come Fences ne abbia anche con il pur diversissimo La La Land. Entrambi incentrati su una coppia di mattatori, sono film che parlano di scelte e di occasioni perdute, dei sogni che connotano la vita delle persone che si amano e che spesso non si realizzano ma lasciano il posto soltanto a ricordi e dura realtà. E’ La La Land il grande favorito e probabilmente vincerà, ma questo non significa che Fences perda.

Di seguito i trailer ufficiali italiani di Moonlight (nelle sale dal 16 febbraio) e Barriere (al cinema dal 23 febbraio):