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Voto: 7.5/10 Titolo originale: Children of Men , uscita: 22-09-2006. Budget: $76,000,000. Regista: Alfonso Cuarón.

Rivisti Oggi | I figli degli uomini di Alfonso Cuarón

25/01/2018 recensione film di Valeria Patti

Un film sincero e di cuore che non si tira indietro nel delineare il ritratto di una realtà distopica, non così lontana da quella attuale

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Siamo nel 2027. Il mondo è a pezzi, non nascono bambini da 18 anni, Londra ci appare stitica di sentimenti e le gabbie sono tornate per imprigionare gli immigrati visti come il male assoluto. In questo scenario così nichilista, grigio e deprimente vediamo muovere I primi passi Theo (Clive Owen) il protagonista antieroe per eccellenza: ha uno sguardo algido, arreso, una visione della società nerissima. Tutto può succedere e tutto è il contrario di ciò che appare, quello che smuove e gli causa motivi scatenanti di reazione sono personaggi che appartengono al suo passato, come se esso stesso fosse l’unica ancora di salvezza per non perdere del tutto l’empatia, ma soprattutto quella scarsa fiducia rimasta verso il prossimo.

Una così netta posizione di distacco verso ciò che non gli appartiene. Qualcosa cambia quando l’ex moglie Julian (interpretata da una splendida Julianne Moore) lo contatta per chiedergli un favore. Restio, non è convinto di accettare tale richiesta ma l’amore che probabilmente non si è mai spento verso questa donna lo spinge ad agire, mosso forse dall’ illusione e dalla debolezza dei ricordi. Non è “solo” il passato che li ha tenuti legati ma probabilmente scatta un sentimento di rivalsa verso se stesso, lo stesso che lo convincerà nel corso della storia a proteggere e scortare una giovane donna che porta in grembo il miracolo dei miracoli: un nuovo nato.

Tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice britannica P. D. James, I figli degli uomini (Children of men) ha una modalità di racconto volutamente opprimente e cupa. Sotto certi aspetti claustrofobica; abbiamo sotto gli occhi una società che non nutre più speranza, dove aleggia un’esistenza quasi del tutto apatica (ci si sente parte di un insieme solo quando muore l’essere umano più giovane del mondo, ‘Baby Diego’) e il motore scatenante che pullula di odio e rabbia muove la maggior parte degli esseri umani.

I personaggi stessi si sentono incastrati in una realtà che dolente o non dolente non permette a loro alcuna scelta, è la stessa Londra ad apparire fatiscente, priva di vegetazione, circondata da palazzi malandati, dove il multilinguismo e il razzismo vanno a braccetto senza possibilità di riscatto.

E’ un mix di elementi che ci fanno percepire quanto disastrosa sia la situazione inglese, che concerne di pari passo a quella mondiale. Gli abitanti si amalgamano a questa società che inevitabilmente li modella perfettamente dando a loro modo di alimentare odio, paura, omofobia, incertezza e ignoranza. E’ un ritratto inquietante di una realtà che somiglia sotto moltissimi aspetti proprio alla nostra, non disegna un mondo reale alternativo, ma assembra ciò che conosciamo portandolo all’estremo, abbastanza estremo da farci riflettere sul possibile e l’impossibile.

Questo mondo ci appare davvero come una società distopica o il ritratto adattato è semplicemente qualcosa che può accadere? Senza se e senza ma è una delle grandi qualità della pellicola. Un mondo propenso a distruggere, non costruire. Giudicare, non comprendere e che ha come denominatore comune la diseguaglianza sociale ed economica. Le persone nelle strade si muovono silenziose e si percepisce quanto l’accettazione sia l’unica forma possibile di sopravvivenza e probabilmente la morte come una possibile forma di liberazione (basti pensare che una delle soluzioni del governo è quelle di stillare kit suicida).

Vi è la necessità di spingere, influenzare e infine manipolare i cittadini a denunciare gli immigrati e chi li protegge, il fondamentalismo che porta a sposare cause facendo dimenticare l’affetto per propri cari e per I luoghi. In primis la Terra stessa, madre delle madri. Il caos diventa l’estrema esposizione dei concetti, lasciando da parte la lucidità necessaria per capire quando e come è il momento di fermarsi, causando una conclusione estrema: il sistema è superiore alle persone che lo vivono.

E’ in tale scenario che il regista messicano Alfonso Cuarón (Gravity) acuisce senza fermarsi questo senso di oppressione e pessimismo. Per tutta la maggior parte del film, anche nei momenti più spensierati, abbiamo l’angoscia di aspettarci qualcosa che inevitabilmente cambierà quel momento; ciò che raggruppa tali elementi è una delle sequenze centrali nella quale Theo è in macchina durante l‘inizio della missione, assieme a lui i ribelli/terroristi dell‘organizzazione Pesci, e la donna che successivamente dovrà scortare.

Il protagonista si diverte scherzando con Julian, assistiamo a una situazione che per pochi minuti abbandona la pesantezza del mondo (che continuiamo a vedere attraverso i finestrini della macchina) dove finalmente possiamo avvertire un rapporto umano spinto da una dolce emotività, è un attimo e come tale è effimero. Il momento dopo improvvisamente dal nulla spuntano due uomini su una moto, tutto accade molto velocemente. Urla.

Se solo l‘attimo prima vi si poteva sorridere a essere seduti su quei sedili, poco dopo assistiamo alla morte in diretta proprio di Julian: tensione, sgomento. Quel microcosmo che pareva essersi ribaltato secondo regole nuove si plasma nuovamente al contesto esterno lasciandoci sbigottiti e addolorati. Ed è proprio con questo continuo leitmotiv che ci spingiamo insieme a Owen sempre più profondamente nella voglia di salvare quella giovane Madonna nera (tutto fuorché innocente) che scopriamo solo qualche minuto dopo essere gravida.

La nascita è sicuramente un tema fondamentale per il Cinema del regista, in I figli degli uomini come non mai, questo vecchio mondo rappresenta le filosofie occidentali nelle quali si cerca di esplicare il concetto opposto: la morte. Prospettiva limitante ma inevitabile perché l’esistenza stessa della persona nel collettivo presente nella realtà, concerne come non mai l’assorbimento dei valori esistenti e questo vecchio mondo non conosce più il suono del pianto dei bambini e il grigiore e la scarsa empatia vanno in collisione con la disillusione tipica degli adulti.

Il cinismo e il disincanto sono elementi che non appartengono ai bambini, e un mondo senza è condannato all’oblio. Nascere è dare inizio al nuovo. Evento fondamentale per l’esistenza umana, chi popola questo pianeta è condannato a non poter più volgere lo sguardo in avanti perché non può esistere più futuro alcuno.

Theo comprende quanto sia fondamentale prendersi carico di una nuova vita, ed è proprio con lui che ci addentriamo nell’oblio ed è sempre con lui che lottiamo per una battaglia così nobile: la salvezza di un’anima pura attraversando l‘inferno, pur rispondendo alla violenza con la violenza. Simbolicamente ci sporchiamo di sangue per il sangue, dilaniamo la carne per la carne, ed è con queste premesse che ci inoltriamo verso la parte finale della storia, dove la violenza che è sempre stata presente esplode al culmine, in un campo profughi.

Questo perché i protagonisti del film fingono di farsi arrestare per poi potersi dirigere da lì a breve su una barca, la destinazione è un’associazione umanitaria pronta tramite accordi ad accogliere la nuova nata.

Piano calcolato da un grandissimo Michael Caine, unico personaggio che alterna momenti di estrema lucidità a spensieratezza, che fuma marijuana con retrogusto alla fragola, egli stesso si immolerà per la salvezza del “genere umano” consapevole di appartenere ormai al vecchio mondo ma lieto di aver potuto donare la sua vita per ciò che verrà, auspicando a una vera e propria rivoluzione dei valori. Assistiamo così a uno scenario estremo, l’orrore vero. I rifugiati visti come gli ultimi degli ultimi, camminiamo insieme a loro e con i due sopravvissuti nella follia umana di chi ormai è stato dimenticato e a cui non interessa più essere ricordato, qui in questa pezzo di terra desolato esplode il culmine di violenza, di massacri e urla dedite al dolore.

Cuarón ci costringe a seguire, con la macchina da presa a mano, Theo durante la guerriglia del giorno dopo. La notte del loro arrivo è nata improvvisamente la piccola nascitura e nelle ore successive senza che i due se ne siano accorti è scoppiata una vera e propria rivolta. Un conflitto che pare non poter terminare se non con la distruzione stessa del luogo, ed è qua che assistiamo a sequenze di guerra (spesso in arditi piani sequenza), dove chiunque spara a chiunque e dove il Caso fa da padrone.

Theo corre, cerca di sopravvivere difendendosi come può, siamo dietro le sue spalle in continui sussulti e tumulti, non vediamo mai durante quei minuti il suo volto e le sue espressioni, ci limitiamo ad ascoltare le grida di chi ha perso qualcuno che ama, nel continuo percorso di violenza totale incrociamo personaggi che stanno morendo, anche noi insieme a lui cerchiamo quella madre insieme alla propria figlia e anche noi ci sentiamo addolorati nell’essere testimoni di un tale massacro. Ma se proprio gli ultimi sono visti come “sacrificabili”, Cuaron in un ambiente così impietoso ci mostra una figura fondamentale che ci appare durante la sua prima comparsa come un personaggio secondario, quasi di passaggio ma che poi si rivelerà esattamente all’opposto: la zingara.

Questa donna presa da un amore e da una protezione inevitabile nel rivedere dopo ben 18 anni una neonata, decide come può e con gli scarsi mezzi che possiede di aiutare l’antieroe e la madre. Li accompagna, li protegge difendendoli (indimenticabile come picchia il poliziotto ‘porco fascista’) portandoli alla meta per la salvezza. Ed è in queste ultime mosse che finalmente possiamo comprendere l’importanza degli ultimi, che nell’atto finale del sacrificio si sporcano le mani per difendere un futuro che finalmente appare forse meno grigio e se all’invito dei due nei confronti della zingara a salire con loro sulla barchetta vi è un perentorio rifiuto, seppur dispiaciuti comprendiamo come il ciclo della vita sia proprio questo. Lo stesso ciclo che incalza l’esistenza vuota di Theo, che si appiglia a un senso finale inevitabile, quasi commovente, con la speranza che deve e può rinascere un nuovo mondo. Immolarsi per LA causa, e fondersi con essa.

Dunque si depongano le armi, si lasci spazio allo stupore e alla sorpresa, e si abbia la spinta finale nel credere nella nascita e nella rinascita, la stessa che finalmente sorge colorata di una speranza timida avvolta nella nebbia. Nei minuti finali riusciamo a comprendere un personaggio difficile come Theo, così silenzioso e poco nitido, che senza alcuna remora si lascia cullare dalla morte, su una piccola e malandata barca, nell’acqua, simbolo di vita.

Abbandoniamo la terra ferma in un futuro affidato alle nuove generazioni, a nuovi ideali e a nuove prospettive, una nuova avventura avvolta da nuove possibilità, accettare di non avere più radici e alzare lo sguardo verso nuove prospettive, azzerando e rinnovando. Auspicando in un nuovo Mondo. Migliore e diverso, o almeno così ci auguriamo.

La morte del vecchio per la vita della bambina.. uno scambio equo.

Di seguito il trailer italiano di I figli degli Uomini: