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Cineocchio Dossier – Wuxiapian: sguardo su un genere intangibile (INTEGRALE)

05/02/2016 news di Michele Senesi

Un viaggio dagli anni 70 a oggi tra eroi, spadaccini erranti e maestri di arti marziali dell'antica Cina, protagonisti di un genere cinematografico estremamente vitale

Gli anni ’70 e l’esplosione del genere

A febbraio 2016 esce contemporaneamente nelle sale cinesi e statunitensi (rispettivamente l’8 e il 26) Crouching Tiger, Hidden Dragon: Sword of Destiny, ovvero il sequel diretto de La Tigre e
il Dragone di Ang Lee, a sedici anni di distanza dal primo capitolo. Adattato da un romanzo di Wang Dulu intitolato Iron Knight, Silver Vase e sceneggiato invece da un americano, John Fusco, già colpevole della sceneggiatura di un precedente “gemellaggio” con l’Asia, Il Regno Proibito (Rob Minkoff, 2008), è una colossale e sofferta co-produzione tra Cina e Stati Uniti.

5 venomsNonostante parte del cast confermato, a balzare subito all’occhio è il passaggio di testimone al timone della regia; il taiwanese Ang Lee lascia il proprio posto al cinese Yuen Woo-ping già coreografo marziale del primo film, di Once Upon a Time in China II, Kung Fu Hustle, Matrix e Kill Bill. E questo è un segnale forte; a parità di genere (in questo caso il wuxiapian) assistiamo a un passaggio tra un autore classico e internazionalmente riconosciuto, solitamente estraneo a certe dinamiche espressive, e un regista e coreografo fondante del genere stesso o almeno di una delle sue forme più moderne.

the magic bladeNe approfittiamo quindi per osservare come si sia giunti a questa evoluzione e come sia il presente del wuxiapian, in questo periodo particolarmente frizzante per il cinema cinese. Ricordiamo che il 2015 è stato l’anno in cui la Cina è diventata il primo mercato cinematografico al mondo e in cui gli incassi record di alcuni titoli nel solo territorio nazionale hanno rappresentato un record inaspettato e mai raggiunto prima in patria. Su tutti il successo del caso Monster Hunt (ad oggi 382 milioni di dollari) che ha raddoppiato gli incassi dei due blockbuster “di classe” dell’anno precedente, The Taking of Tiger Mountain (di Tsui Hark) e Journey to the West: Conquering the Demons (di Stephen Chow).

Per guardare al presente, decidiamo di fare un piccolo ripasso della storia “recente” del genere afferrandolo dai suoi anni di gloria anche internazionale (seppur con irrilevante filologia distributiva occidentale): gli anni ’70. Studiare e appassionarsi a culture distanti dalla nostra custodisce sempre alcuni pregi innegabili, comuni e trasversali a tutte le arti. Ad esempio, osservando con cura il cinema di Hong Kong possiamo notare come si tratti di un contesto in cui brillano dei generi autoctoni e unici al mondo. Come gli Stati Uniti hanno avuto il western così Hong Kong, e di rimbalzo la Cina contemporanea, hanno avuto molti generi (e ancor più sottogeneri) tipici e unici, dallo Huangmei Diao (sorta di cinema musicale ibridato al dramma sentimentale, all’opera e altre innumerevoli influenze) al kung fu movie e il wuxiapian di cui stiamo parlando. Hong Kong è sempre stata così, una città onnivora e rapidissima e la dinamicità con la quale viene praticata ogni attività (incluso il rapporto con il cibo) ha un riflesso reale anche nel cinema che deve essere un vorace profluvio di emozioni usa e getta.

The-Invincible-Armour

La differenza con altre cinematografie è che questa attitudine ha portato ad una sperimentazione continua e ad un rinnovarsi ciclico di invenzioni e stili, l’emergere ripetitivo di pionieri e maestri e spesso il giustapporsi di straordinari e liberissimi talenti. E’ così che il cinema dell’ex colonia inglese è stato sempre un fenomeno radicato e fondante della cultura locale. Un cinema che esplodeva, si estingueva, perdeva il contatto con il proprio pubblico per poi rinnovarsi ogni volta ex novo e riconquistare la fiducia dello spettatore locale. Nella seconda metà degli anni ’60 e gli inizi dei ’70, il cinema wuxiapian di Hong Kong cerca di guardare al Giappone e ad un genere simile, il chanbara, per trovare nuova linfa per alimentare un cinema ormai ripetitivo e poco vitale.

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Due sono principalmente i nomi, macroscopicamente antitetici tra loro, atti a demolire e ricostruire il genere; da un lato King Hu (A Touch of Zen), maestro dalla produzione parca che lo accompagna lungo binari più contemplativi e autoriali. Dall’altra il prolifico Chang Cheh che impone la violenza più esplicita e sanguigna del western all’italiana di Leone ed epigoni, dirigendo classici del calibro di One Armed Swordsman, The
Heroic Ones e Five Venoms. Mentre i kung fu movie arrivavano in massa anche in Italia parallelamente al successo del cinema di Bruce Lee, distribuiti a pacchetti, rinominati e doppiati fantasiosamente, il wuxiapian in patria vedeva l’avvicendarsi di decine di nuovi artisti alla regia e alle coreografie marziali (Lau Kar-leung, Chor Yuen, Tong Kai…) inaugurando una nuova primavera per il lavoro dei martial art director. Vengono prodotti centinaia di film, facendo la fortuna delle case di produzione, prima tra tutti la Shaw Brothers. Plagi, sequel, imitazioni, crossover, derive, versioni speculari a Taiwan, i titoli continuano a sommarsi l’uno sull’altro. A chiudere però la storia stilistica di questa onda è proprio King Hu con il suo The Valiant Ones punto di non ritorno della messa in scena dell’azione, un caleidoscopio di montaggio impazzito, punti macchina azzardati e movimenti di corpi mai più raggiunto. O almeno non raggiunto fino a vent’anni dopo, precisamente nel 1995.

1980: la New Wave

Tutto sommato la vita media di una novità nella Hong Kong di fine ’70, inizi ’80 era paragonabile a una qualunque scoperta tecnologica nel secondo decennio del nuovo secolo. L’aver introdotto una violenza più palpabile, un maggiore uso di effetti speciali e di artifizi per mostrare i mirabolanti poteri degli spadaccini erranti, una regia che seguiva senza particolare intervento le performance marziali era nel breve termine diventato espressione di un cinema di maniera. Ad Hong Kong è così, per ogni successo arrivano decine di plagi, imitazioni, derive, oggetti simili.

sw2Nel breve giro di un decennio erano stati prodotti centinaia di wuxiapian di alterna fattura che in breve avevano saturato il mercato. Il genere inoltre è spesso di origine letteraria e cammina sempre in bilico tra cinema verosimile e fantasy, il che aveva aperto la strada ad una nuova visione, seppur acerba, dell’effetto speciale. Ma l’avvento della televisione, all’epoca così sperimentale da sfiorare, e a volte raggiungere, l’avanguardia, dall’altra i passi in avanti raggiunti dall’effettistica statunitense e la classica tendenza al risparmio, sicuri ormai del successo facile del genere, avevano portato ad un suo lento declino. Il pubblico stava perdendo la fiducia e l’interesse verso un qualcosa che ormai aveva sempre meno da dire e che era stanca ombra ripetitiva di sé stesso.

The Enigmatic Case 1980Ma si ripete il miracolo. Forse addirittura maggiore rispetto a quello di quindici anni prima. Un pugno di registi agguerriti, politicizzati, provenienti dalla televisione girano in una manciata scarsa di anni dei film di esordio deflagranti e totalmente innovativi che vanno a produrre una sorta di new wave locale. E si tratta di una new wave bizzarra atta a rivoluzionare il linguaggio filmico, i metodi di raccontare e i contenuti in maniera assolutamente autoriale. Ma lo fanno tutti lavorando paradossalmente su un esplicito cinema di genere. Patrick Tam con The Sword, Johnnie To con The Enigmatic Case, Tsui Hark con The Butterfly Murders. Non troppo casualmente, tre wuxiapian. A questa new wave si sommano nuovi nomi (come quello di Ann Hui, tutti autori che faranno la storia del cinema di lì a poco), ma ha vita breve a causa di prodotti ad alta resa qualitativa ma troppo sperimentali per potere trovare una degna accoglienza nel pubblico locale. Donano però un segnale forte all’industria, una sorta di voce urlata che suggerisce che un cinema diverso e totalmente nuovo è possibile.

Manca solo un uomo che possa creare un precedente. E quell’uomo è Tsui Hark. Dopo tre film sperimentali rivelatisi flop e una deriva per necessità nella commedia, riesce a dirigere Zu: Warriors from the Magic Mountain, ovvero un colossal fantasy in cui, con l’aiuto di tecnici hollywoodiani, rivoluziona e modernizza macroscopicamente il cinema hongkonghese. E’ solo un passo. Il meglio deve arrivare. Nel 1984 Tsui fonda la propria casa di produzione, la Film Workshop a cui affianca un’officina per gli effetti speciali, la Cinefex.

the sword adam cheng

In questo modo trova finalmente l’indipendenza creativa (parzialmente vero, in effetti, viste le versioni tagliate, monche o rimontate di tanti suoi film) e può dare il via alla scrittura di un percorso coerente e rivoluzionario. Forte quindi di un apparente gap colmato con il resto del mondo nel campo dell’effettistica, di un costo del lavoro competitivo, di una moglie rivelatasi una eccellente produttrice e di grandi tecnici che attendevano solo le giuste direttive, Tsui prende tutti i generi locali più incisivi e in sei anni, dal 1986 al 1992, li rivoluziona. Inizia dal noir producendo ad un John Woo in piena crisi lavorativa il classico A Better Tomorrow. Passa poi al fantasy producendo a Ching Siu-tung / Storia di Fantasmi Cinesi e successivamente al wuxiapian con la saga di Swordsman. Infine tiene per se il kung fu movie dirigendo l’epopea di Once Upon a Time in China.

a-chinese-ghost-storyQuesta rivoluzione stilistica rimette totalmente in gioco le riflessioni sulla messa in scena rendendola moderna e dinamica e ripensa in toto la coreografia marziale creando un metodo di successo che si ripercuoterà in ogni genere. Che sia un film di arti marziali, un action, un erotico o una commedia la metodologia di messa in scena è la stessa: furibonda, rapida, inventiva, energica, anabolizzata, ma sempre puntellata da imprevisti tocchi di classe e poesia stilistica. Il più delle volte fasciata da una fotografia calda, policroma e raffinata. Si produce così un cinema di genere ma particolarmente colto che tesse con il pubblico un legame onesto e di intelligente rispetto. Nel mentre Tsui Hark utilizza i risultati di tutti questi successi per realizzare dei film minori e più personali, trasversali ai generi e a volte totalmente indefinibili, il più delle volte rivelatisi flop di pubblico anche se qualitativamente rilevanti anche all’interno della storia del cinema locale.

Hong Kong, siamo a casa

Le novità citate porteranno ai grandi decenni di gloria dei coreografi marziali. Nonostante il numero tutto sommato elevato di nomi degni di nota (a cui si affiancano eccellenti direttori di scontri e inseguimenti automobilistici e responsabili di ogni possibilità di messa in scena dell’azione), due saranno principalmente le scuole di pensiero che nel wuxiapian avranno maggiore risalto. La prima è quella incarnata da Ching Siu-tung, la seconda quella di Yuen Woo-ping.

ashes of timeIl primo fa della frammentazione, del dettaglio, della furia e della frenesia di stimoli rimasticati da un montaggio impazzito il segreto delle sue coreografie incredibili, economiche e sorprendenti. Il secondo è invece maestro nella fluidità dei movimenti, della pulizia dei raccordi, della limpidezza percettiva delle dinamiche e della fusione cristallina tra movimento di macchina, dell’attore e del mélange con la partitura sonora. Sono gli anni del wirework (sistema di imbracatura e cavi per far volare gli spadaccini), dei trampolini, del fumo sintetico e delle luci secche e colorate, degli effetti ottici e di infiniti artifizi per ritrovare la visione fantastica e poco verosimile del senso del meraviglioso dell’origine letteraria.

A metà anni ’90 in pieno boom del genere si stava ripetendo quello che era avvenuto 20 anni prima; sovrapproduzione, plagi, titoli derivativi, tendenza al risparmio e lenta discesa verso la maniera. Ma ecco che iniziano ad arrivare i segnali del fatto che qualcosa stava per cambiare; il primo è Wong Kar-wai (Hong Kong Express, In the Mood for Love) con il suo Ashes of Time, sorta di canto del cigno e visione crepuscolare del genere. Un altro segno arriva dalle coreografie brutali dell’esordio alla regia di Donnie Yen (Ip Man) intitolato Legend of the Wolf. E un altro esordio, proprio come ai tempi della new wave di inizi ’80 è quello di Daniel Lee con il suo brutale e raffinato What Price Survival del 1994, non troppo casualmente lo stesso anno di Ashes of Time.

THE BLADE tsuiMa di nuovo è Tsui Hark a porre la pietra tombale del wuxiapian. Il regista ha sempre evitato la maniera e il successo facile e ha tentato sempre una strada in cui la novità, l’invenzione e l’originalità fossero le basi da cui far sbocciare i generi e decine -se non centinaia- di prodotti derivati. Come aveva rigenerato il filone lo uccide con il suo The Blade del 1995, punto di non ritorno estremo e oscuro del genere. Cancella tutto quello che aveva creato, elimina i cavi, riporta la violenza a terra e la rende palpabile e priva di eroismi, sprofonda la narrazione in un indecifrabile e verosimile medioevo popolato di bande di predoni tatuati ed elegge una nuova filosofia della spada. E’ l’unico a raggiungere i livelli stilistici del The Valiant Ones di King Hu già citato e crea un precedente, senza una goccia di effetti digitali che ad oggi, altri 20 anni dopo, non ha avuto eguali.

legend-of-he-wolf-1997-donnieA tutti i segni nefasti citati si aggiunge l’altro grande trauma di Hong Kong, ovvero l’incertezza di cosa sarebbe avvenuto una volta tornata alla Cina nel 1997, terminato quindi il periodo coloniale inglese. Gli investimenti calano, il cinema più cupo viene eliminato dalle sale e i maggiori talenti “scappano” a Hollywood (Chow Yun-fat, Jet Li, Jackie Chan, Ringo Lam, Kirk Wong, Corey Yuen, lo stesso Tsui Hark…).
Altri o vanno in un ritiro forzato o restano a “combattere” tenacemente in patria variando i generi e gli stili, come Johnnie To che inizia la sua strada nel noir a basso budget. Se a tutto questo sommiamo il periodo di crisi dovuto alla SARS, si è di fronte al canto del cigno di un cinema e di un paese.

Ma come abbiamo visto, la popolazione di Hong Kong non è abituata a scoraggiarsi e a darsi per vinta. Innanzi tutto un evento buffo da notare è che mentre il metodo di messa in scena di certe dinamiche è ormai morto in patria e la produzione del genere sta calando drasticamente, questo viene “scoperto” negli USA, adottato e proposto come la grande novità del cinema locale. Il film d’azione pesante, muscolare e balistico degli anni ’80 lascia spazio a un’azione più dinamica e lieve.
I Tre Moschettieri (1993) di Stephen Herek che plagia il duello con le scale di Once Upon a Time in China (1991) di Tsui Hark, La Maschera di Zorro (1999) di Martin Campbell che rubacchia da New Dragon Gate Inn (1992) di Raymond Lee, fino ad arrivare al boom di Matrix vero agglomerato, seppur originale e rigoroso, di tantissime influenze della cultura pop cinese e giapponese e Kill Bill, accozzaglia -tra l’altro- di infinite scene, personaggi, musiche, situazioni provenienti proprio dal kung fu movie classico dei ’70.

the promise E’ in questa atmosfera che vede la luce La Tigre e il Dragone, capostipite non di un genere ma di una più elaborata e consapevole esigenza di marketing per rilanciare lo stesso e soprattutto renderlo appetibile ad un pubblico occidentale. Produzioni cinesi a cui si affianca spesso l’iniezione di fondi americani, profluvio di elementi esotici e riconoscibili da uno spettatore generico ma, soprattutto, il non prestare più la regia a nomi di genere o coreografi, ma a autori da Festival lontanissimi in sensibilità dal wuxiapian. Passano sotto questa gogna in ordine sparso Ang Lee (La Tigre e il Dragone), Zhang Yimou (Hero, La Foresta dei Pugnali Volanti, La Città Proibita), Feng Xiaogang (The Banquet), Chen Kaige (The Promise); film patinati, ad alto budget, coloratissimi, colmi di effetti digitali e di un profluvio di utilizzo dei cavi, estetizzanti, contemplativi, fasciati da una accecante confezione deluxe.

Ritorno al presente

Inutile dire che questa fase durerà poco. Curioso notare come quella inaugurata da Tsui Hark con The Blade e proseguita tenacemente con l’ottimo Seven Swords, nonostante alcuni esemplari non avrà comunque una vita particolarmente rilevante. Il wuxiapian cinese contemporaneo si genera o comunque trova un pioniere, nel caso cinematografico del 1998, ovvero The Storm Riders di Andrew Lau. Un’intuizione vincente, ovvero quella di tentare di colmare di nuovo un gap tecnologico con il resto del mondo, producendo un wuxiapian ai limiti del fantasy inondandolo di tonnellate di computer grafica e di scontri in stile manga (il film è tratto da un noto fumetto locale) risolti con green screen, effetti e raggi energetici.

storm riders lau poster

Il film è un successo monumentale ma all’epoca genera pochi emuli a causa dei budget investiti e delle poche agenzie locali capaci di gestire un comparto tecnologico del genere. I risultati si vedranno parecchi anni dopo. Nel mentre è sempre Tsui Hark con il suo The Legend of Zu (2001), sequel del citato film del 1983, a adottare la stessa idea con risultati qualitativamente ben più riusciti segnando un record internazionale; al momento dell’uscita è il film con il maggior numero di effetti digitali della storia, più di Star Wars: Episodio I – La Minaccia Fantasma (1999). Ma è di nuovo un film troppo cervellotico e sperimentale e si rivela un flop al botteghino.

zu warriors posterHong Kong è tornata alla Cina e inizia la temuta, ma al contempo auspicata, epoca delle coproduzioni. Il cinema di Hong Kong come lo conoscevamo si estingue e muta in concept profondamente radicati nel territorio per conquistare un pubblico locale particolarmente attento. Il resto si trasforma in un qualcosa che deve palesare la prova di forza dell’industria cinese e essere competitivo con il resto del mondo in tutto, budget, costi, stipendi, effetti, sfarzo. Ne esce un cinema meno personale, meno sperimentale, meno sporco, meno coraggioso e originale che si evolve in un prodotto inoffensivo, patinato, ricchissimo, sorta di riflesso della mediocritas della Hollywood contemporanea. E’ il nuovo blockbuster cinese a cui -fortunatamente- si affianca comunque un buon cinema medio e anche d’autore che riesce a fare furore ai Festival. Nel 2004 il più rilevante sussulto del decennio; un comico, Stephen Chow, dirige Kung Fu Hustle, straordinario omaggio al kung fu movie e wuxia degli anni ’70. E’ un meritato successo epocale al botteghino; decine di maestri e vecchi attori ormai in pensione ritrovano i set dopo la loro presenza recitativa nel film e in breve vengono messi in produzione qualche manciata di plagi e progetti derivativi (la trilogia di Kung Fu Mahjong, Kung Fu Fighter e l’immancabile versione porno con Sex Kung Fu…).

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E’ anche il periodo del boom del cinema d’azione thailandese e Hong Kong è quindi obbligata ad aggiornarsi per competere in efficacia. L’attore e coreografo Donnie Yen sarà la risposta più dirompente a questa domanda. Il cinema marziale diventa un enorme blob che ingloba wuxiapian, kung fu movie e fantasy senza soluzione di continuità e prosegue per due apparenti direzioni; una più realistica, sanguigna, pantagruelica ma verosimile, radicata nella storia e sussegue titoli di alterna resa qualitativa: Bodyguards and Assassins, Fearless, Rise of the Legend, Ip Man, The Grandmasters, The Warlords, Red Cliff, Wu Xia, The Lost Bladesman, 14 Blades, An Empress and the Warriors, The Guillotines. L’altra dominata da un eccesso accecante e naif di effetti speciali digitali e più tendente al fantasy, spesso remake e reboot di successi del passato: The White Haired Witch of Lunar Kingdom, The Sorcerer and the White Snake, The Butterfly Lovers, A Chinese Fairy Tale, il dittico di Painted Skin e di Tai Chi Zero, la trilogia di The Four, Chronicles of the Ghostly Tribe, Mojin the Lost Legend, Zhong Kui: Snow Girl and The Dark Crystal. Intorno, vari casi più o meno isolati che mostrano un percorso in fieri privo di una direzione univoca come in passato.

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The Sword Identity di Xu Haofeng, scoperto e portato al Festival del Cinema di Venezia in periodo Muller, è un riuscito tentativo di rivitalizzare il genere con filologia e precisione narrativa, lesinando in azione ma guadagnando in verosimiglianza a tratti maniacale. Dopo il 2010 è di nuovo il boom della saga di Viaggio in Occidente con un film di altissimo profilo realizzato da Stephen Chow (Journey to the West: Conquering the Demons), una versione ingolfata di computer grafica fuori da ogni registro (The Monkey King, di Soi Cheang) di cui è in arrivo un sequel e un film d’animazione di successo, Monkey King: Hero Is Back.

E Tsui Hark? Dopo tre film di generi diversi è tornato con una tripletta artisticamente non troppo brillante: Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma, Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon e il sequel del suo film del 1992 The Flying Swords of Dragon Gate. Ma è solo ora che il regista ha trovato finalmente le risorse e il successo di pubblico che non aveva mai raggiunto nel corso della propria vita, che perde parzialmente in innovazione e sguardo personale di un proprio universo creativo, segnando però alcuni dei maggiori incassi della storia del cinema locale. Poi nel 2015 propone un’opera diversa e particolarmente riuscita, l’ennesimo campione di incassi The Taking of Tiger Mountain, film d’azione storico tratto da un evento bellico realmente avvenuto.

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Attualmente è alla post produzione del sequel di Journey to the West che ha diretto sotto la produzione di Stephen Chow. La strada del genere è quindi totalmente aperta e di più difficile interpretazione rispetto al passato. Sicuro è che gli investimenti nel cinema locale e nel genere stanno diventando sempre più abbondanti, con il coinvolgimento di tecnici e spesso attori occidentali (vedi Dragon Blade con Jackie Chan, Adrien Brody e John Cusack). Gli investimenti e gli incassi ormai da anni sono in salita e siamo curiosi di osservare quanto potrà durare ancora questa parabola ascendente.

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