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Dossier | Chi sorveglia i vigilantes? La vendetta dell’uomo comune al cinema (parte 2)

12/03/2018 news di Redazione Il Cineocchio

Prosegue e si conclude l'analisi sul sottogenere, che può contare su esponenti di spicco del calibro di Taxi Driver e che ha trovato in qualche modo un omologo nel poliziottesco dei commissari 'di ferro' nostrano

Nella prima metà del nostro dossier | (Chi sorveglia i vigilantes? La vendetta dell’uomo comune al cinema – parte 1) vi abbiamo parlato del contesto in cui la cinematografia legata ai giustizieri degli anni ’70 è nata, dei suoi caratteri, di alcuni dei film più celebri, come Il giustiziere della notte o Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, nonché di alcuni predecessori nei noir e nei fumetti degli anni ’30 e ’40 e nel western, americano e italiano.

Nel riprendere la nostra rassegna non potevamo certo dimenticarci di un altro caposaldo sul tema del giustizialismo, che insieme porta in auge e sovverte tutto questo sottogenere: Taxi Driver di Martin Scorsese del 1976. New York è sempre la stessa, un puzzolente antro infestato di disagiati e violenza, ma quivi l’esasperazione dovuta all’imperante squallore urbano diventa un autentico incubo infernale, che fa letteralmente impazzire Travis Bickle. Certo sin dall’inizio l’uomo non mostra un grande equilibrio psichico, anzi bastano i primi dieci minuti a rendere manifesta una palese forma paranoica. Si tratta di un mix esplosivo: è alienato, xenofobo, con molti problemi con le donne e arrabbiato con il mondo intero per ragioni che sono solamente accennate, ma mai approfondite. E vuole disperatamente diventare famoso. Ispirandosi liberamente ad Arthur Bremer (incarcerato per il tentato omicidio nel 1972 del candidato alla presidenza degli Stati Uniti George Wallace), il taxista decide quindi che il modo migliore per conseguire il suo obiettivo sia di sparare a un candidato presidenziale. In caso fallisse, giusto per appagare preventivamente il bisogno frustrato di utilizzare un’arma da fuoco contro qualcuno, uccide prima un magnaccia e (casualmente) un gruppo di mafiosi…

Portando dunque in auge la figura dell’eroico vigilante di buon cuore, che sta solo cercando di migliorare un po’ l’esistenza dei suoi concittadini, sono seguiti molti emuli, non solo negli Stati Uniti, ma pure in Italia. Ne nacque così il filone dei cosiddetti poliziotteschi, in cui però sono commissari e membri della polizia sui generis a combattere la malavita e le altre cosche criminali con metodi decisamente ‘insoliti’. Tra i più celebri capostipiti del gruppo c’è Svegliati e uccidi di Carlo Lizzani del 1968, che vede fronteggiarsi Robert Hoffman e Gian Maria Volonté; seguono poi numerosi titoli, tra cui Banditi a Milano (1968) sempre del medesimo regista, La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina, La polizia incrimina, la legge assolve di Enzo G. Castellari del 1973 con protagonista Franco Nero. Ancor più indicativa è la Trilogia del commissario Betti (Roma violenta del 1975, Italia a mano armata e Napoli violenta, entrambi del 1976) di Franco Martinelli, in cui Maurizio Merli presenta tutte le caratteristiche del vigilante classico, ma al contempo porta il distintivo. Sia dunque il Belpaese, oppure la Grande Mela, irresistibile è quella fascinazione decadente per il degrado, tra magnaccia, prostitute, tossici e gang che popolano uno scenario ai limiti del distopico, in cui la legge ha cessato di essere esercitata e che ha lasciato una traccia costante nell’immaginario collettivo, sublimando il brutto, che non è solo frutto di pura invenzione, ma come spesso accade, trasfigurazione parziale della verità.

Arriviamo così agli anni ’80, ma la cinematografia dedicata ai vendicatori fai da te non cessa, anzi spuntano delle interessanti variazioni, prima tra tutte quella al centro di L’angelo della vendetta (Ms. 45) di Abel Ferrara del 1981. A metà strada tra Non violentate Jennifer e Il giustiziere della notte, la protagonista Zoë Lund è una giovane donna muta che vive nella pericolosissima New York e che viene violentata addirittura due volte nel medesimo giorno. Dopo aver accidentalmente ucciso un malintenzionato che entra nel suo appartamento e l’aggredisce, si risveglia in lei una femminista sete di sangue e giustizia e inizia una guerra contro i malvagi e maschilisti criminali del circondario. Il tutto si conclude in un’apoteosi finale in cui, la donna, travestita da suora, compie una vera e propria carneficina durante la notte di Halloween. Resta uno dei rarissimi casi in cui è una donna a vestire gli scomodi panni di vigilante.

Un anno dopo, nel 1982, William Lustig (che si era già fatto un nome con Maniac) uscì con il suo secondo lungometraggio, intitolato semplicemente Vigilante che, a detta del regista stesso, si ispirava ai lavori dei nostri Umberto Lenzi ed Enzo G. Castellari (a loro volta ispiratisi a Il giustiziere della notte, in cui peraltro Lustig aveva lavorato come assistente al montaggio). La storia è incentrata su un meccanico (Robert Forster) che vive nel Queens e che crede nel sogno americano, finché torna a casa una sera e trova la moglie picchiata a sangue e il figlio morto, ucciso da un gruppo di rapinatori. La premessa vi ricorda qualcosa? Tuttavia in una visione assai più cinica e negativa del sistema rispetto al predecessore di Michael Winner, qui i poliziotti sono indisponenti e svogliati, l’ufficio del procuratore distrettuale è impotente e i tribunali sono corrotti. Di conseguenza, i boss come i piccoli malviventi sono liberi di agire indisturbati e nessuno è al sicuro. Se il messaggio poi non fosse del tutto chiaro, a renderlo più limpido ci pensa Nick (Fred Williamson), che ringhia:

Ci sono 40 omicidi al giorno in questa città. Oltre 2 milioni di armi illegali per le strade; abbastanza da invadere un dannato paese. Sparano ai poliziotti, senza nemmeno pensarci.

Poi completa il discorso aggiungendo che, visto che i tribunali, le forze dell’ordine e così via sono incapaci di arginare il fenomeno, i cittadini devono armarsi e provvedere da sé alla propria autodifesa, o a ottenere giustizia. E non si limita alle parole … Capo di una banda locale di vigilanti, guida i residenti del Queens in pattugliamenti alla ricerca di ladruncoli e teppistelli di strada, che poi mandano all’ospedale o all’obitorio. Tuttavia inizialmente non riesce a reclutare il protagonista, che rimane persuaso della differenza tra loro e i poliziotti; muta però opinione quando gli agenti trovano effettivamente i colpevoli dell’assassinio del figlio, ma il caso viene archiviato per un vizio di forma, mentre è lui a essere messo in prigione per averli aggrediti in aula!

Sempre nel 1982 fa capolino nelle sale anche Il giustiziere della notte 2, sequel arrivato a ben otto anni di distanza dal capostipite, nonostante l’ottimo risultato al botteghino, e solamente quando Dino De Laurentiis si decide a venderne i diritti alla casa di produzione specializzata in film a basso budget Cannon Films, che riporta prontamente Charles Bronson – e Winner – sul grande schermo. Nel decennio successivo si avvicendano quindi tre altri seguiti, che vedono anche uno spostamento della serie a Los Angeles, prima di tornare nuovamente a NYC e che diventano sempre più economici, fino al mesto straight to video degli ultimi capitoli. La più complessa analisi psicologica dell’originale è opportunamente epurata per un più immediato intrattenimento basato su una pletora di sparatorie e qualche battuta a effetto. Anche il protagonista, Kersey, subisce un’adeguata metamorfosi in supereroe invincibile che non manca mai un colpo e non viene scalfito dai proiettili, con un body count che diviene sempre più corposo a ogni nuova pellicola. Meno attenzione viene anche prestata alla trama, o alla timeline generale … Tutto procede comunque senza troppi intoppi fino al 1994, con l’uscita nei cinema di Il giustiziere della notte 5 (Death Wish V: The Face of Death) in cui Kersey, ripulita la città da tutti i teppistelli e landruncoli, rivolge le sue attenzioni verso la criminalità organizzata, ovvero la Mafia. In tutto ciò, l’autore del romanzo, Brian Garfield, è assai scontento per gli sviluppi della saga e per l’evoluzione subìta del suo soggetto nei sequel, così scrive un secondo libro, Death Sentence (fuori catalogo da anni in Italia), assai più critico e che esplora le conseguenze nella vita reale del vigilantismo, senza però ottenere particolare successo. Al contrario, la serie di film continua a mantenere dei fedeli seguaci nonostante tutto, da cui discende il progetto per un ulteriore capitolo, ma il discorso è archiviato per la scomparsa di Bronson (2003). D’altra parte, a metà degli anni ’80 la situazione in America (aka New York) comincia a migliorare e, seppur ci siano dei luoghi ancora da evitare, come i parchi, le metropolitane e Times Square, non esiste più quella fascinosamente torbida città degli anni ’70, ma una realtà ben meno problematica e di conseguenza la filmografia degli ultimi anni del decennio non può più avere il medesimo impatto viscerale, poiché non ve ne sono più le radici nel concreto di tutti i giorni.

Infine, se il filone filmico perde un pezzo alla volta lungo gli anni Ottanta tutti quegli elementi d’interesse e quel sostrato che lo avevano reso popolare, Il giustiziere della notte trova tuttavia un suo omologo in carne ed ossa. Il 22 dicembre 1984, Bernie Goetz, che era stato rapinato alcuni anni prima nella stazione della metropolitana di Canal Street, si trova in un vagone all’altezza della 14° Strada, quando è avvicinato da cinque ragazzi dagli intenti discutibili, che gli chiedono dei dollari. In tutta risposta, invece di consegnare il denaro, questo comune uomo di mezza età, magro e occhialuto, brandisce una pistola e spara loro senza pensarci troppo, per poi scappare. Come nella finzione cinematografica, in molti inneggiano all’eroe, ma quando iniziano a circolare le sue dichiarazioni e i verbali della polizia, la collettività si rende conto di avere davanti un soggetto esasperato e visionario, molto più vicino allo schizzato Travis Bickle che a Paul Kersey E anche lui, nonostante l’instabile equilibrio mentale, come Laughlin, cerca di utilizzare la sua ambigua fama per una carriera politica, candidandosi addirittura come sindaco di New York, senza però ottenere grande appoggio.

Dal grande schermo alla vita reale, il fenomeno dei vigilantes ha dunque contraddistinto un’epoca ed espresso un malessere collettivo, che è arrivato a concretizzarsi in casi emblematici di violenza come quello di Goetz. E se la storia si stesse per ripetere? Dopo la parentesi solitaria di Death Sentence del 2007 ad opera di James Wan, Eli Roth ha puntato ora tutto su Bruce Willis per il suo remake proprio di Il Giustiziere della Notte (la nostra recensione), nelle nostre sala dall’8 marzo.