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Dossier | Oltre il Tempo: i molti futuri del 1982 fantascientifico (parte 1)

26/02/2018 news di Giorgio Paolo Campi

Ripercorriamo un anno fondamentale nella storia della sci-fi su celluloide, con l'uscita di La Cosa di John Carpenter e Blade Runner di Ridley Scott (e non solo), cercando di capire i motivi del loro flop all'epoca e il fondamentale lascito per il cinema a venire

FANTASCIENZA DEL PRESENTE

Nel 2014, durante un’intervista rilasciata a BBC, Steven Spielberg affermava candidamente:

“Remember, science fiction’s always been the kind of first level alert to think about things to come […] Every science fiction movie I have ever seen, any one that’s worth its weight in celluloid, warns us about things that ultimately come true”.

Se da un lato, almeno in parte, non si può che condividere questa prospettiva di una proiezione degli sforzi creativi – solo convenzionalmente rubricati sotto l’etichetta di sci-fi – verso l’imprescindibile ulteriorità di un orizzonte cronologico, la posizione del regista non sembra esaurirsi in questa considerazione, destando vari interrogativi sullo statuto e il ruolo del cinema fantascientifico e della fantascienza tout court. Proprio attraverso gli strumenti di tale genere sembra riemergere limpidamente l’idea di cinema come il maggiore e più efficace dispositivo mitopoietico della nostra epoca, il medium in grado di generare orizzonti di coscienza condivisi e collettivi pressoché universali, non solo in funzione di tensioni escatologiche verso il futuro – rosee o pessimistiche che siano – ma soprattutto della definizione fondante dei valori e delle norme culturali che caratterizzano il presente. Laddove infatti la rappresentazione, al di là dello scheletro drammaturgico, si configuri come ricettacolo di aspettative verso un “oltre”, essa deve giocoforza rendersi specchio di un sentire diffuso che nell’attuale tesse ed elabora tali aspettative. Questo equilibrio dialettico tra figurazione futuribile (si legga: escatologica) e fondazione di uno stato di cose presente tramite una sua identificazione per contrasto rispetto a una realtà altra, distante nello spazio o nel tempo, costituisce il cardine attorno al quale ogni vicenda si avvolge e la sostanza di ogni presupposto narrativo “fantascientifico” e l’amplissimo margine entro cui la fantasia degli autori può spaziare, muovendosi dallo spazio siderale al viaggio nel tempo, dalla A.I. ai superpoteri, da creature mostruose o UFO all’interdimensionalità. È in questi termini, ovvero quelli dell’edificazione culturale di un presente, che una pellicola si può rendere strumento di “avvertimento”, di formazione di una coscienza identitaria, fino ad assumere i tratti di una critica alle gerarchie costituite del potere o al contrario di un’espressione inconscia di un’ideologia del potere ufficiale (come effettivamente accadde all’epoca dei primi sviluppi letterari del genere in epoca coloniale, quando l’altro-da-sé oppresso e difficilmente conformabile allo stereotipo imperialista veniva trasfigurato nei tratti del “mostro”).

Non dovrebbe stupire dunque che il concetto di alterità, di cui l’anima stessa del genere si sostanzia ed è permeata, sia stato e tuttora sia uno degli elementi maggiormente tematizzati dalla fantascienza anche esplicitamente, su un piano contenutistico. Accade così che, assecondando uno sguardo retrospettivo, la storia delle rappresentazioni – in questo caso cinematografiche – di una “distanza” crono-culturale possa contribuire a rischiarare alcuni tratti specifici di una temperie artistica che, seppure fluida ed immersa in un continuum complesso e composito, appare caratterizzata da ciò che si potrebbe definire come una sorta di shibboleth stilistici, che la contraddistinguono e permettono di considerarla in una prospettiva più ristretta. E restringendo appunto l’orizzonte dell’interesse, una data chiave per la comprensione di molte istanze della cinematografia degli ultimi decenni fu quel fatidico 1982.

MILLENOVECENTOOTTANTADUE: CONTESTO E RETAGGIO

A cavallo tra le due decadi dei 70s e degli 80s si consumava il definitivo tracollo della New Hollywood, che aveva rappresentato una nuova “età dell’oro” in equilibrio tra una rispettosa continuità rispetto al passato e una spinta verso l’innovazione, resa possibile grazie alle favorevoli occasioni di sintesi tra pura ricerca autoriale, grande disponibilità di mezzi personali e interessi monetari legati alla macchina industriale hollywoodiana. Dopo aver prodotto uno dei suoi frutti più maturi e significativi con Apocalypse Now (1979), questa tendenza subì una brusca battuta d’arresto a causa del fallimento della United Artists in seguito al clamoroso flop del colossal western di Michael Cimino, I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, 1980) – 3.5 milioni di dollari incassati al box office rispetto ai 44 milioni di budget. L’anno successivo, la vendita della casa di produzione da parte della Transamerica Corporation a Kerkor Kerkorian, allora proprietario della Tracinda Corporation e maggior azionista della Metro-Goldwyn-Mayer, significò il definitivo allontanamento di capitali e autori, la conseguente perdita di autonomia di questi ultimi ed una governance più salda da parte dei grandi produttori. Come per ogni transizione tra epoche, però, anche questo caso fu caratterizzato da una certa fluidità, attraversando uno spettro di sfumature e prodotti ibridi ed un mutamento soppesato e graduale.

Nell’immediato strascico di tale temperie, il 1982 si rivelò un anno estremamente prolifico per la fantascienza cinematografica, e il suo retaggio ha esercitato una significativa influenza sul cinema – non solo di genere – successivo. Accanto a produzioni che si potrebbero definire minori – limitandosi a una considerazione sul budget – come Il mostro della palude (Swamp Thing) di Wes Craven e Endangered Species di Alan Rudolph, nello stesso anno videro la luce anche pellicole come Conan il barbaro (Conan the Barbarian), Tron, Star Trek II – L’ira di Khan (Star Trek II: The Wrath of Khan) o Dark Crystal di Jim Henson. Mentre quest’ultimo, ad esempio, proponeva un fondamentale e pionieristico contributo alla decostruzione del pregiudizio antropocentrico, rimpiazzando con pupazzi ogni attore umano in carne ed ossa sulla scena (persino il protagonista), nello stesso periodo era uscito nelle sale anche Interceptor – Il guerriero della strada (The Road Warrior,1981) di George Miller, il secondo capitolo della saga di Mad Max, che si sarebbe rivelato uno strepitoso successo; nel frattempo, David Cronenberg dava vita alla sua sottile e perturbante indagine sui meandri della psiche, sullo statuto di realtà e sul rapporto umano-macchina (e di conseguenza, più in generale, tra anthropos e techne) con tre pellicole che hanno segnato altrettanti vertici della sua carriera di regista: Brood – La covata malefica (1979), Scanners (1981) e Videodrome (1983).

Questo panorama già estremamente costellato di spunti di riflessione e suggestioni fu coronato dall’uscita nel mese di giugno del 1982, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, di tre pilastri dell’immaginario cinematografico contemporaneo: E.T. l’extra-terrestre (E.T. the ExtraTerrestrial, 11 giugno), La Cosa (The Thing) di John Carpente e Blade Runner (entrambi il 25 giugno) di Ridley Scott. La maestria visionaria di Carlo Rambaldi e i buoni sentimenti di Steven Spielberg, che ben si sposavano con le istanze family friendly allora imposte dalla Universal Pictures, stracciarono la concorrenza con un incredibile incasso (729.9 milioni di dollari contro i 10.5 di budget), segnando l’insuccesso finanziario (ma non solo) delle altre due pellicole, e per John Carpenter addirittura la recessione dal contratto con la stessa Universal per la regia di Fenomeni paranormali incontrollabili (Firestarter, 1984) – adattamento dell’omonimo romanzo kinghiano – che passò nelle mani di Mark Lester. Questa sfortuna però, com’è noto, fu tale solamente nell’immediato: se Blade Runner fu ritenuto degno di inclusione nel National Film Registry nel 1993 (un anno prima della selezione di E.T., non senza una certa ironia) e fu nominato dalla Visual Effects Society il secondo film più importante della storia riguardo all’aspetto visivo, anche La Cosa – nonostante il tristemente celebre appellativo di “instant junk” che gli era stato attribuito appena dopo l’uscita dal critico del New York Times Vincent Canby – guadagnò ben presto un vastissimo seguito di aficionados: al più tardi nel 1998, era già considerato un cult movie.

Le concause che condussero all’insuccesso a corto raggio e ad una completa rivalutazione negli anni a venire sono varie e diversificate, e si dispongono su diversi livelli sovrapposti e compenetrantisi vicendevolmente, che spaziano dall’economia al costume, dalla politica al sociale. Un primo fattore contingente che contribuì in maniera dirimente ad assicurare il successo “postumo” delle due pellicole fu la loro diffusione sul mercato dell’home video, che non si limitò ad incrementare la loro diffusione, ma accese verso esse un interesse legato non solo alla mera fruizione, bensì anche a una riflessione accademica e a innumerevoli omaggi, rielaborazioni, suggestioni sparsi in ogni angolo della cultura pop di tutto il mondo. Non molti film si sono rivelati tanto seminali quanto Blade Runner e La Cosa, classici – ormai definibili in questo modo – della fantascienza, contaminato con elementi neo-noir nel primo caso, e con l’horror nel secondo. Per rimanere in ambito prettamente cinematografico, basti considerare il trend degli adattamenti dai romanzi di Philip K. Dick nato grazie a Blade Runner, che ha dato alla luce pellicole come Atto di Forza (Total Recall, 1990) o Minority Report (2002), l’influenza estetica degli algidi e bagnati skyline cyberpunk che si intravede nel Terry Gilliam di Brazil (1985) o di L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, 1995), nella trilogia di Matrix delle sorelle Wachowski fino a giungere in Oriente con il capolavoro dell’animazione di Katsuhiro Ōtomo, Akira (1988), o ancora l’input conferito alla riflessione sul corpo, la tecnologia e gli sviluppi dell’anatomia biomeccanica di RoboCop (1987) o del Japanese cyberpunk – Death Powder (1986); Tetsuo: The Iron Man (1989) di Shin’ya Tsukamoto – spingendosi fino al presente con, ad esempio, la recentissima serie TV di produzione Netflix, Altered Carbon (2018); questa rassegna potrebbe allungarsi ancora a dismisura. Per quanto riguarda La Cosa, il suo profondissimo retaggio storico-culturale è dimostrato dalla riconoscenza che molti autori e registi – da Quentin Tarantino a J.J. Abrams, da Guillermo Del Toro a Neill Blomkamp, per nominarne alcuni – gli hanno dimostrato nel corso del tempo e dall’influenza che su di essi ha esercitato.

ALTERITÀ RASSICURANTE

Eppure, entrambi i film nell’anno della loro uscita non furono premiati al box office (circa 5 milioni di dollari in positivo rispetto ai budget di partenza) e nemmeno ricevettero il plauso della critica, che anzi si mostrò delusa e – in questo caso – del tutto priva di lungimiranza, riservando ad essi un’accoglienza decisamente fredda e distaccata. Nel corso del tempo, varie ragioni sono state addotte nel tentativo di chiarire tale fallimento, che appare ora tanto incredibile quanto immeritato; alcuni fattori che hanno sicuramente contribuito a questo scenario sembrerebbero, oltre alla spietata e insormontabile concorrenza di E.T., la generale saturazione di film fantascientifici nell’offerta cinematografica di quell’anno e la classificazione come R-Rated da parte della MPAA. Senza negare la solidità e l’influenza di questi argomenti, tuttavia non si può fare a meno di riconoscere la loro incompletezza, dato che non sono sufficienti, se considerati isolatamente, a giustificare il doppio flop e l’avversità della critica. E, se ogni interpretazione è figlia e specchio del suo tempo, proprio concentrandosi sull’approfondimento delle istanze emerse dalla critica è possibile costruire un discorso che tenti di superare la contingenza degli eventi e li rielabori per riassegnare ad essi un senso in una prospettiva culturale.
Uno dei punti su cui l’attenzione si è focalizzata con maggiore insistenza, in riferimento a entrambe le pellicole, è quello che concerne lo sviluppo e la rappresentazione dell’umanità dei caratteri; questo aspetto emerge chiaramente in una breve rassegna delle prime recensioni:

“THE THING is a great barf-bag movie, all right, but is it any good? I found it disappointing, for two reasons: the superficial characterization and the implausible behavior of the scientists on that icy outpost”.

Roger Ebert – Chicago Sun-Times, 1 gennaio 1982

“A deeper problem is that Carpenter’s people are not strongly or wittily characterized […] Designer Rob Bottin’s work is novel and unforgettable, but since it exists in a near vacuum emotionally, it becomes too domineering dramatically and something of an exercise in abstract art”.

Richard Schickel – Time; 28 giugno 1982

“There’s a big difference between shock effects and suspense, and in sacrificing everything at the altar of gore, Carpenter sabotages the drama”.

David Ansen – Newsweek; 28 giugno 1982

“He seems more concerned with creating his film worlds than populating them with plausible characters, and that’s the trouble this time. “Blade Runner” is a stunningly interesting visual achievement, but a failure as a story”.

Roger Ebert – Chicago Sun-Times; 2 giugno 1982

“The story lurches along awkwardly, helped not at all by some ponderous stabs at developing Deckard’s character […] Mr. Ford is, for a movie so darkly fanciful, rather a colorless hero; he fades too easily into the bleak background”.

Janet Maslin – The New York Times; 25 giugno 1982

“Deckard’s mission seems of no particular consequence. Whom is he trying to save? Those sewer-rat people in the city? They’re presented as so dehumanized that their life or death hardly matters. Deckard feels no more connection with them than Ridley Scott does. They’re just part of the film’s bluish-gray, heavy-metal chic—inertia made glamorous […] It hasn’t been thought out in human terms”.

Pauline Kael – The New Yorker; 12 luglio 1982

continua …