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Bugonia spiegazione finale: Emma Stone, l’aliena e il giudizio sull’umanità secondo Yorgos Lanthimos

Approfondiamo il remake del regista greco

Con Bugonia (la recensione), il regista greco Yorgos Lanthimos torna a un cinema che mescola grottesco, satira sociale e disperazione metafisica. Dopo Poor Things, l’autore greco firma un racconto apocalittico che si traveste da black comedy per riflettere sul rapporto fra potere e colpa, capitalismo e superstizione, empatia e annientamento. Al centro, Emma Stone nei panni di Michelle Fuller, glaciale CEO di un colosso farmaceutico accusata da due uomini di essere un’aliena travestita da essere umano. Un’accusa assurda, delirante – eppure vera.

Da qui nasce la tensione che attraversa tutto il film: e se il complottista avesse ragione, ma per motivi sbagliati? Il finale di Bugonia rovescia le prospettive morali, dimostrando che la verità può coesistere con la follia, e che la ragione, in un sistema malato, non garantisce la giustizia. È un epilogo spiazzante, che rilegge il rapporto fra vittima e carnefice, potere e punizione, umanità e specie. Ma soprattutto, è una parabola politica e filosofica sulla disumanizzazione reciproca che alimenta il nostro tempo.

Il colpo di scena come diagnosi morale

La rivelazione che Michelle è davvero un’aliena andromediana, e persino l’imperatrice della sua razza, non serve a nobilitare la paranoia di Teddy (Jesse Plemons), ma a esporre la asimmetria di potere che divide i mondi. Tutto ciò che Teddy scambia per follia – i capelli come canale di comunicazione, l’armadio che è un teletrasporto, la distanza emotiva della donna – si rivela reale. Ciò che resta sbagliato è il suo metodo: tortura, omicidio, sopraffazione. Lanthimos valida la percezione ma condanna l’azione, mostrando che la verità senza etica è solo un’altra forma di violenza.

Teddy incarna il rancore di chi è stato tradito da un sistema che cura e uccide allo stesso tempo: sua madre è rimasta in coma dopo un trial farmacologico della compagnia di Michelle. Lei, simbolo del capitalismo terapeutico, risponde con denaro e silenzi. Quando dice a Teddy:

Tu sei un perdente, io sono una vincente,” riassume la logica di un mondo dove la vittoria non è morale ma predatoria. Che sia aliena o umana, Michelle rappresenta la ferocia premiata dal potere.

Il gesto finale: estinzione come verità del sistema

Il momento in cui Michelle, tornata sulla nave madre, decide di “spegnere” la specie umana è la naturale conclusione di questa dialettica.
«Con un solo scoppio della bolla atmosferica,» recita la didascalia simbolica, «la vita umana scompare.» Ma non tutta la vita: gli animali restano, le api ripopolano il pianeta. L’umanità è rimossa come un virus, eppure la regina che lo esegue piange. È il pianto dell’assassina consapevole, non del mostro. Un gesto che non è vendetta ma resa: la conferma che neanche chi domina riesce più a credere nella possibilità di salvarci.

Lanthimos costruisce questo momento con una scelta formale radicale: nessuna esplosione, nessuna CGI, solo una serie di quadri immobili. Persone che cadono a terra mentre pregano, ridono, cucinano, fanno l’amore. È l’apocalisse senza spettacolo, un catalogo silenzioso dell’umano. Così il regista toglie allo spettatore il sollievo della catastrofe e lo costringe a guardare le conseguenze. Ci uccide in modo banale, come banale è la violenza che abbiamo normalizzato.

Don, l’ultima soglia dell’umano

Il personaggio di Don (Aidan Delbis), cugino di Teddy, è la cerniera morale del racconto. È l’unico capace di empatia, di vergogna, di rimorso. Quando si toglie la vita davanti a Michelle, chiude l’ultima possibilità di equilibrio tra follia e pietà. Da quel momento, Teddy diventa puro odio, Michelle pura strategia. La sua morte è il vero punto di non ritorno, l’istante in cui il film ci dice che la fine del mondo non comincia dallo spazio, ma dal cedimento dell’etica.

Dal remake al rito: un finale che obbliga

Rispetto al coreano Save the Green Planet!, l’originale coreano, Lanthimos compie una mutazione ideologica. Là, l’alieno distrugge anche la Terra: nichilismo totale. Qui, gli animali sopravvivono. È un gesto che umanizza la disumanità e introduce una contraddizione fertile: se la natura vive senza di noi, forse è il pianeta a essere salvo. Ma se le lacrime di Michelle sono sincere, forse c’è ancora rimpianto per ciò che eravamo.

Lo sceneggiatore Will Tracy lo ha detto chiaramente:

Non volevo un finale prescritto, ma una conversazione.” Ed è esattamente ciò che ottiene Lanthimos: un finale che non si interpreta, si discute. Bugonia non offre risposte, ma un test morale: quanto del male che denunciamo è anche dentro di noi?

Conclusione: siamo noi gli alieni

Alla fine, Bugonia non parla di extraterrestri. Parla di noi, di una civiltà che ha smesso di riconoscersi come comunità e si percepisce come specie fallita. Michelle, l’aliena che si finge umana, diventa il nostro riflesso: controlla, domina, poi piange — come un dio che non crede più nella sua creazione.

Il senso profondo del film è racchiuso in una domanda che rimbalza dopo i titoli di coda:

E se non fosse lei l’aliena, ma noi, da tempo, per come viviamo, per come ci trattiamo?

Ecco perché il finale di Bugonia funziona. Non perché rivela un mistero, ma perché spoglia la nostra normalità fino a mostrarne la parte mostruosa. Ci lascia davanti a un mondo che continua senza di noi e ci chiede se siamo disposti a cambiare prima che sia qualcun altro – umano o alieno – a staccare la spina.

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Published by
Gioia Majuna