Horror & Thriller

Caveat | La recensione del film horror di Damian McCarthy (BIFFF 2021)

Il regista inglese esordisce con un lungometraggio alla Memento innestato nel contesto di una casa stregata

Horror indipendente britannico sibillino e minimale, Caveat – presentato al BIFFF 2021 – costituisce il sofisticato debutto alla regia di un lungometraggio per Damian McCarthy, seppure la propensione all’enigmatico finisca per ricadere nel confuso, nell’inspiegabile, o meglio nel non spiegato a sufficienza. A dare forza al racconto sono le atmosfere: il fulcro della narrazione è uno dei massimi topos della cinematografia del terrore, ossia una spettrale casa dispersa in lande desolate (in Inghilterra), tra le cui mura un tragico quanto inspiegabile evento è avvenuto di recente (un anno prima). Eppure, l’evocativa ambientazione rimane insufficiente, poiché la narrazione imbastita attorno alla location in questione vacilla, appoggiandosi fin troppo sulla suggestione dello sguardo, e tralasciando invece i dettagli della diegesi.

Caveat ruota intorno ad Isaac (Jonathan French) incaricato dal vecchio amico Barret (Ben Caplan), di cui però non ricorda nulla, di badare per qualche giorno alla nipote Olga (Leila Sykes). La ragazza, dopo la traumatica scomparsa dei genitori, soffre infatti di una grave forma psicotica e si ostina a rimanere nella lugubre e decadente casa di famiglia tutta sola. Non dovrebbe quindi sembrare strano che lo zio, unico parente che le è rimasto, si preoccupi della salute di lei e decida di inviare una persona di fiducia a controllarla. E la paga è decisamente buona: ben 200 sterline al giorno. Tuttavia, man mano che si succedono le prime sequenze, le condizioni si rivelano decisamente inquietanti.

Anzitutto, Isaac apprende solo una volta arrivato sul posto che la villetta non si trova sulla terra ferma, bensì su un’isoletta raggiungile con una piccola barca. La scoperta lo inquieta non poco, visto che non sa nuotare e teme l’acqua, comunque probabilmente gelida, vista la zona. Inoltre, una giunti alla destinazione finale gli viene rivelata un’altra clausola a dir poco vessatoria. A detta del suo datore di lavoro, la disturbata Olga pretende che il suo ‘custode’ indossi una sorta di bustino di pelle, chiuso con un lucchetto e incatenato a un gancio collocato in un punto non ben definito del sinistro seminterrato. La secondo, ancor più bizzarra postilla lascia il protagonista ancora più dubbioso e sconcertato, e come dargli torto? Nonostante le sue perplessità, decide alla fine di prestarsi. In fin dei conti, la retribuzione è ottima e ormai è già lì …

Le premesse di Caveat sono indubbiamente singolari e, come spesso accade nei film horror, interrogarsi troppo sui particolari porta più dubbi che comprensione. D’altra parte, senza una buona dose di sospensione dell’incredulità, le trame di gran parte dei titoli afferenti al genere deflagrerebbero come castelli di carte al vento. Pur tuttavia, con il lento svelarsi dell’arcano incoerenze e stranezze si moltiplicano tanto da rendere difficile allo spettatore la totale assimilazione dei fatti come plausibili. Su una impalcatura diegetica da casa stregata, con tanto di cadaveri murati, apparizioni spettrali da jumpscare e omicidi multipli, si inserisce una linea narrativa principale alla Memento.

A ciò si aggiungono un piano criminale e alcuni elementi di sapore hitchcockiano in uno svolgimento a incastro con diversi flashback e colpi di scena (non del tutto inattesi). Ha senso? Potrebbe, se solo una serie di quisquilie pratiche (l’accesso a cibo e corrente per dirne due) non minassero in parte la credibilità dell’insieme.

Se ignoriamo questi aspetti, e ci lasciamo trasportare dall’atmosfera, per il resto, Caveat è innegabilmente, oscuramente affascinante. Damian McCarthy e il suo direttore della fotografia, Kieran Fitzgerald, ci immergono in una sur-realtà crepuscolare, che si tinge dei toni spenti del ocra, del mattone e dei marroni. Di giorno, la luce s’insinua negli spazi interni dalle finestre socchiuse, colorando di una luce spenta le superfici grigiastre e risaltando le superfici scabre. Le pareti sono crepate dal tempo e corrose dall’umidità. I tessuti dell’arredo sono lisi. In cucina, edere e altre erbe infestanti si fanno strada dalle fessure acuendo la sensazione d’abbandono (da ben più di un anno, quando la tragedia si è quivi consumata). Casa di fantasmi, trascurata da lungo tempo dai mortali, questo ci urlano le quattro mura derelitte.

Eppure, un inquilino a sangue caldo abita ancora le stanze sinistre. E, solo una folle potrebbe eleggere un luogo simile a sua residenza. Si tratta della stranita Olga, folle e catatonica, che alterna momenti di paralisi (in cui si accuccia con le mani a coprire il viso) a parentesi di quasi normalità. Entità spettrale lei stessa, è perfetto corrispettivo umano dell’ambiente in cui vive, quasi anche lei fosse contagiata dallo squallore generale. All’apparenza passiva, la ragazza sarà davvero così inconsapevole?

Componente fondante della suspense alla base di Caveat, il suo segreto viene svelato solo lentamente, con parsimonia ed arte, anche grazie all’interpretazione di Leila Sykes, la quale, espressiva eppure sottotono, riesce perfettamente a incarnare gli alti e bassi di una psicologia estremamente problematica.

Poi ci sono le notti e gli spazi oscuri. Da un lato, gli scricchiolii e i sussurri, i quadri a tinte fosche che sembrano osservare arcigni Isaac e che cadano senza apparente motivo. Oppure ci sono gli oggetti inquietanti ed eccentrici, come un coniglio che suona un tamburo proprio nei momenti di massima tensione. Tale fenomenologia del terrore, parte di una grammatica di genere ben rodata, è riutilizzata in Caveat in maniera perlopiù convenzionale, ma al contempo distrae dal vero fulcro degli eventi. Le perturbazioni fantasmatiche diventano allora ulteriore meccanismo di un ingranaggio compresso di rivelazioni e smentite, che però – di nuovo – non è del tutto funzionante, ma a tratti si inceppa.

Ciò è ancor più vero quando si ripercorrono le fondamenta degli eventi, che fisicamente coincidono con lo scantinato e i cunicoli al di sotto della casa. Lì, tra tenebre e polvere, si cela un mistero dai volti molteplici e indistinti. La verità, quindi, diviene visione confusa, o meglio viaggio onirico in una ragnatela di ricordi di un passato confuso che emergono a singhiozzi davanti agli occhi sconvolti del protagonista Isaac, lui stesso afflitto da una mente poco lucida (più volte si rimanda a un incidente…). Spettri della mente o dal passato?

Al netto di qualche leggerezza di copione, Caveat riesce a mantenerci sospesi in un mondo di mezzo, in cui la psiche e il soprannaturale si competono la spiegazione ultima di un mistero ben ordito da Damian McCarthy (che scrive anche la sceneggiatura) e che prende perfettamente forma in un’ambientazione sepolcrale, un relitto della memoria che si erge in un’isola di fantasmi.

Il trailer internazionale di Caveat:

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Published by
Sabrina Crivelli