Nel 1979 il regista sovietico tornava sulle scene con un visionario film di fantascienza filosofica, complesso e stratificato
Stalker, la Zona, il ‘Tritacarne’, la Stanza. Sono tutte ermetiche, eppur precise, definizioni di un’ambigua, polivalente realtà, 0 – almeno – di una parvenza di realtà. Quasi una premonizione, un sospetto, talora una speranza. È questo il fitto intrico simbolico attraverso il quale si dipana, austero e prezioso, Stalker (Сталкер), film del cineasta sovietico Andrej Tarkovskij che arrivava nei cinema nel 1979 (in Italia nel 1981). Un titolo significativo. mutuato com’esso è dal verbo inglese to stalk (“avvicinarsi furtivamente, di soppiatto, con estrema circospezione”).
La traccia narrativa (desunta con radicali licenze dal racconto fantascientifico Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij, pubblicato nel 1972) s’inoltra con formale rispetto delle aristoteliche unità di tempo, di luogo, d’azione nella sghemba dimensione in bilico tra l’apologo filosofico e l’esasperata introspezione psicologica.
Stalker propone un’immersione totale e totalizzante nell’ossessivo spazio interiore di tormentose ansie, paure, incubi o, anche, di potenziali, seppur improbabili, rigenerazioni.
A dire dello stesso Andrej Tarkovskij, Stalker “è una vicenda curiosa“. E, in modo specifico, una vicenda che “si costruisce praticamente su tre personaggi, uno scrittore… uno scienziato… e lo stalker. Chi è e cosa fa questo stalker? Diciamo che fa la guida, o una specie di guida, più o meno come quelli che, durante le cacce, vanno a stanare la selvaggina. Lui. però, non stana nessuna selvaggina, stana, o cerca di stanare, la… felicità. Né più né meno… “.
È questa, anzi. l’enigmatica ‘condanna’ dello Stalker. Segnato in ogni senso da una sorte che lo lega a un’esistenza di frodo, accanto alla sfiorita moglie e alla figlioletta malata di un inguaribile morbo (una ‘mutante’) contratto dal padre nella Zona. Sempre spronato, peraltro, a lanciarsi in nuove, pericolose incursioni verso la Stanza, luogo d’appagamento di inconfessati desideri, traguardo trascendente o favoleggiata proiezione di fiammeggianti ideali.
Lo Stalker campeggia così ora trascinatore ora gregario, tra le concitate presenze dello Scrittore, un uomo giunto al fondo del disamore e del cinismo, e dello Scienziato, un fisico frustrato nelle sue insoddisfatte ambizioni di prestigio, di grandezza: entrambi protesi verso pragmatici, azzardati risarcimenti personali. Pur prezzolato quale guida, la tensione dominante dello Stalker resta un’avventura giocata al termine della propria inquieta coscienza.
Superate mille insidie e altrettanti terrori, lo Scienziato, lo Scrittore e lo Stalker non varcheranno mai l’ormai raggiunta soglia della temibile Stanza. Lì giunto, anzi, ognuno dei tre, mosso da segrete ragioni, recederà dal proposito di compiere il passo risolutivo. Per ritrovarsi, poco dopo, come all’inizio della vicenda, in un desolato bar a rifare i gesti ordinari d’ogni giorno. Non è accaduto niente, dunque? Nemmeno per lo Stalker? Sintomaticamente allusiva è però la riapparizione di sua moglie e della figlioletta malata, con le quali egli rientra, spossato e disperato, nella propria misera casa.
È stato un sogno? Un incubo? Soltanto la sognante litania della piccola, intenta in sorprendenti giochi, stempera quietamente il dramma sospeso nei trepidi, tranquillanti versi di Fëdor Ivanovič Tjutčev: “Amorali occhi tuoi, amica mia / Il loro gioco splendido di fiamme”. È anche l’ultima tra le tante, oblique illuminazioni poetiche di Stalker che Andrej Tarkovskij così semplificava: ” …un film d’azione inferiore, un western in un cervello… “.
Probabilmente questo stesso ordito così fitto di segnali simbolici e di rimandi ‘culti’ raffrena a tratti lo svolgersi della vicenda in raffinate aure evocative che si estenuano, di quando in quando, nel virtuosismo manieristico e nella rarefazione dei significati narrativi. L’arduo spessore tematico dell’opera è, peraltro, ampiamente riscattato qui da una figuratività e da un respiro espressivo che presto fanno corpo in un lirismo visionario sbalorditivo.
Stalker è come un maestoso fluire d’acque (e l’acqua, come tanti altri elementi fisici, ha anche in questo film una pregnante, essenziale valenza di arcaico paradigma esistenziale) dove speranze e disperazioni umane sono trascinate a valle in un indistinto brulichio di parole, di gesti, di eventi inspiegabili e inspiegati. Non c’è salvezza possibile, né alcuna consolazione — sembra suggerirci Andrej Tarkovskij —: rimane soltanto, forse, l’ostinata dedizione dell’uomo alla vita, ovvero l’amore, costi quel che costi. Un messaggio antico, certo, spesso offuscato da fuorvianti esaltazioni, eppure sempre attuale, praticabile. Sennò, che resta d’altro?
Che dire di più? Tentare di rifarci, come Andrej Tarkovskij, alla saggezza di Lao Tze (“La debolezza è potenza, e la forza è niente … Rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza. … Per questo ciò che si è irrigidito non vincerà”)? Ma chi ascoltava ancora, al tempo, la voce dei saggi? Il regista russo, appunto, anche quando consumava un semplice ‘picnic sul ciglio della strada’.
Di seguito trovate il trailer internazionale di Stalker: