Al Festival di Sitges 2025 abbiamo fatto quattro chiacchiere col regista, ripercorrendo la sua gloriosa carriera nel cinema di genere
Nel corso del Festival di Sitges 2025 Enzo G. Castellari – regista simbolo del cinema di genere italiano – si è seduto con noi per un’intervista esclusiva tra ricordi, aneddoti e riflessioni sul suo straordinario percorso artistico.
Partiamo da Keoma, un film molto apprezzato, che ha dato al western italiano un tono ossessivo, visionario. Se dovesse girare oggi un western, quali scelte estetiche di Keoma manterrebbe e quali invece abbandonerebbe?
Castellari: Farei Keoma esattamente com’è, dal primo giorno all’ultimo. Adoro quel film. Non sbaglierei mai, non cambierei nulla rispetto all’originale. È uno dei miei film preferiti, davvero. Il problema che abbiamo avuto è stato il copione: lo avevamo, ma l’ho fatto a pezzi. Poi ho deciso di inventare tutto giorno per giorno. Per fortuna avevo con me John Loffredo, che era americano e scrittore: con lui ho creato i dialoghi, giorno dopo giorno.
Come mai era brutto il primo copione?
Castellari: Ci sono idee che sembrano stupende quando le descrivi, ma quando le leggi capisci che non funzionano. Quella mi sembrava un’idea bellissima, ma il copione era stupido. Così l’ho buttato via.
Il sodalizio con Franco Nero: come è cominciato? Vi siete trovati subito sul set?
Non è stato facile, all’inizio. Quando volevamo fare La polizia incrimina, la legge assolve, il produttore mi disse: “Ci vuole un attore importante, uno molto conosciuto, che stia su tutti i giornali”. Io suggerii Mark Spitz, che allora aveva appena vinto cinque ori olimpici. Poi però entra in scena la parrucchiera di Franco Nero, che era amica nostra. Lei aveva lavorato anche con mio padre a Milano ed era diventata la sua parrucchiera personale. Mi disse: “Vieni all’ora di pranzo, vediamo”. Andai, ci incontrammo un momento. Gli dissi due parole e lui mi guardò: non gli piacevo. E aveva ragione: ero troppo sportivo, troppo muscoloso, troppo fisico. Poi ci siamo rivisti in un altro ristorante. Lì Franco, grazie anche ad Anthony Quinn, aveva letto bene il soggetto ed era entusiasta di farlo. Mi disse: “Dobbiamo farlo subito, subito, subito!”. E così fu: dipendeva solo dal produttore, ma partimmo in breve tempo. Da allora abbiamo lavorato insieme molte volte.
Oh, sì, me lo ricordo benissimo. Lavoravamo con Ramón Bravo, che era uno di quelli che nuotava davvero con gli squali. La collaborazione fu fantastica. Le parti subacquee le girava lui con i suoi uomini: io gli disegnavo le scene più importanti, gli spiegavo come farle, e lui le rifaceva benissimo. Poi diceva: “Vieni anche tu giù!”. Un giorno c’era un nurse shark, uno squalo di fondo, con tutte quelle antenne… sembrano denti. Ramón diceva: “Non c’è problema”. Allora scendo anch’io. Lo squalo era semimorto: lo tiravano al centro, davanti alla macchina da presa, e gli acrobati lavoravano. Ma tornando indietro, lo squalo si girò e prese la sua direzione – proprio verso di me. Veniva dritto, diretto, diretto. È un’impressione terribile, come vedere un treno che ti viene addosso. Con la maschera subacquea, poi, sembra ancora più grande.
È stato un momento terribile per me, anche se per gli altri sembrava divertente: mi dicevano “Bravo! Bravo!”. Allora, da scemo, mi sono buttato sopra la pinna dorsale. Mi ci sono aggrappato con tutto il corpo e lo squalo ha continuato ad andare avanti, pesantissimo per via del mio peso. Andavo avanti di qualche metro, poi sono arrivati gli altri. Tutta la troupe mi ha raggiunto. Lo squalo mi aveva però scalfito la muta, perché la sua pelle è ruvida come carta vetrata. Usciva un po’ di sangue. Quando sono risalito sulla barca… be’, diciamo che il modo di dire “me la sono fatta sotto” non è una metafora: è proprio vero! È stato tremendo anche solo togliermi la muta. Mi sono chiuso in cabina, non riuscivo a calmarmi. Poi mi sono cambiato, ho rimesso la mia tuta normale e abbiamo continuato. Ma è stato un incontro ravvicinato, troppo ravvicinato. Non mi ha morso, ma mi ha strusciato: ha rotto la muta e un po’ di sangue è uscito. Gli altri indicavano, io pinneggiavo e sono risalito, appoggiandomi alla pinna dorsale. Sembrano secondi, ma mi è sembrato un tempo infinito.
Venendo a Inglourious Basterds, ovvero Quel maledetto treno blindato: cosa ha provato quando Quentin Tarantino ha deciso di omaggiare il suo film?
In Italia il titolo originale era Inglourious Basterds. Il distributore però mi disse che Quel maledetto treno blindato non era abbastanza forte. Tarantino lo ha omaggiato cambiando la “a” di Bastards in “e”, scrivendolo Basterds, per dare un tocco personale.
Fu coinvolto direttamente? Tarantino la contattò?
Prima mi scrisse una lettera. Poi ci siamo sentiti, e infine ci siamo incontrati a Los Angeles, dove abbiamo girato la scena del mio cameo.
Lei conosceva già Tarantino o il suo cinema?
No, non lo conoscevo. L’ho scoperto dopo, quando arrivò la lettera.
E che impressione ebbe quando lo incontrò?
Quando ci vedemmo, cominciò a parlarmi dei personaggi che non avevano ancora trovato il loro attore tedesco, che era fondamentale per il film. Mi disse: “Finché non trovo quest’attore, non si parte.” E aveva ragione. Aspettò, poi lo trovò, e mi invitò a Berlino. Mio figlio mi accompagnò. Durante le riprese, mio figlio gli suggerì: “Perché non metti papà in primo piano, sullo stesso piano degli altri?” Tarantino disse: “Fire, fire!” — perché nel teatro stava scoppiando un incendio — e aggiunse: “Sì, ti metto dentro!”. Avevano già girato tutto, ma lui fece ricostruire il set da capo. Mi sistemò in seconda o terza fila, dietro tutti gli altri gerarchi.
Girava lui stesso col dolly, mi diceva: “Guarda qua, guarda là”. Poi, nel montaggio, la scena non fu inserita. Alla fine appaio nella hall dell’hotel, con un altro attore, e poi dietro ai protagonisti, quando si fingono cineasti italiani. Io sono quello che dice “Gorlami”. Non riuscivo neanche a pronunciarlo! E l’altro: “Margheriti, Margheriti, Margheriti!”. Era una scena comica, molto divertente. Tarantino rimase sorpreso che Inglourious Basterds non fosse un remake: era un film completamente diverso, solo ispirato. L’idea del gruppo di carcerati che compiono un’azione eroica viene da lì, ma il suo film era tutt’altra cosa.
Sì, me lo proposero. Mi offrirono una cifra, poi un’altra, poi un’altra ancora. Io vedevo le cifre salire e continuavo a dire di no (ride). Alla fine si fermarono perché trovarono Lucio Fulci, che non stava molto bene, ma accettò di farlo. È stato l’unico horror che mi abbiano mai offerto.
Negli anni ’70 e ’80 il cinema di genere italiano viveva un periodo d’oro — western, polizieschi, azione. Qual era, secondo lei, l’alchimia di quel momento?
Ogni genere aveva la sua epoca. Il West era West. E con Keoma credo di aver raggiunto il massimo. Il film nacque da un’idea che poi cambiò molto: il copione presentato era orrendo. Così dissi: “Lo facciamo, ma con un trattamento nuovo.” Ogni giorno inventavamo una sequenza: oggi l’attacco al treno, domani un’altra scena. Tutto è andato avanti così, fino alla fine.
E il periodo dei polizieschi? Dopo il western arrivarono l’action e l’horror. Com’era possibile fare film di genere così forti in quegli anni?
Negli anni ’70 e ’80 arrivammo quasi naturalmente al poliziesco, perché l’horror e l’azione stavano finendo il loro ciclo.
Il poliziesco era facile da fare: bastava aprire il giornale per capire cosa stava succedendo nel Paese, e da lì partiva l’idea. Ma non era così semplice come sembra. Fare un film è sempre complicato.
Molti facevano polizieschi solo perché era di moda, ma noi con La polizia incrimina, la legge assolve avevamo un soggetto fortissimo: parlava, in modo romanzato, della morte del commissario Calabresi, che allora aveva colpito tutti. Fu un successo incredibile.
Come mai il pubblico amava così tanto quei film?
Perché parlavano del cittadino comune che subisce le prepotenze dei potenti e, quando reagisce, lo fa in modo violento.
I copioni nascevano dagli articoli di giornale: leggevamo cinque o sei storie vere e da lì costruivamo la sceneggiatura.
Erano film in cui lo spettatore si identificava: seguiva il protagonista per un’ora e mezza e sperava che ce la facesse. C’era gusto, rabbia, forza. E il pubblico voleva proprio quello: reagire, anche solo al cinema.
Poi arrivarono la commedia e il post-atomico…
Sì, poi arrivò la commedia all’italiana, un po’ più scollacciata, e il post-atomico. Io ci ho provato: era il ’77, tutti pensavano che sarebbe stato il nuovo boom. Dopo di me ci provarono anche Lucio Fulci, Michele Lupo e tanti altri colleghi, ma non funzionò. Keoma è stato uno degli ultimi western veri, crepuscolare e moderno. Poi arrivarono Alien, Terminator… la fantascienza americana. Io ho solo cercato di dare al cinema italiano quello spirito d’azione che avevamo inventato prima degli altri.
Dall’energia di Keoma alla tensione dei suoi polizieschi, fino al riconoscimento di Tarantino, Enzo G. Castellari attraversa con lucidità e passione un’intera epoca del cinema italiano. Un cinema fatto di istinto, artigianato, avventura – e, come dice lui stesso, di pura libertà creativa.