Azione & Avventura

Fury: la recensione del film di guerra diretto da David Ayer

Nel 2014, Brad Pitt e Shia LaBeouf erano i protagonisti di un war movie senza fronzoli, che ci immerge fino ai gomiti nel fango degli ultimi duri giorni della Seconda Guerra Mondiale

La prima cosa che si nota è il fango. Ancor più del copioso sangue e della violenza, rappresenta l’elemento visivo determinante di Fury. È ovunque. I piedi ne sono incrostati. Pneumatici e battistrada ne sono impregnati. Le strade – se possono essere chiamate così – ne sono lastricate. Raramente un film sulla Seconda Guerra Mondiale ha raffigurato quanto ogni cosa fosse sudicia durante la lenta cavalcata del 1945 attraverso la campagna tedesca verso Berlino. Se dovessimo scegliere un complimento soltanto per descrivere il lavoro dello sceneggiatore e regista David Ayer qui è di esser riuscito pienamente a cogliere questo fondamentale aspetto, dimostrando che, a differenza di quanto mostrato nei war movies hollywoodiani meno storicamente esigenti, lo sforzo finale degli Alleati non fu un semplice picnic post D-Day.

In un certo senso, Fury e Patton, generale d’acciaio degli anni ’70 possono essere guardati come due facce della stessa medaglia (al valore). Entrambi si occupano ampiamente della guerra fatta coi carri armati, ma da diverse prospettive. Il film di Franklin Schaffner offre una visione dall’alto della battaglia – quella degli strateghi che osservano da lontano e muovono i pezzi su una scacchiera. Per il controverso generale, gli scontri riguardavano, più che Sherman contro Tiger, lui contro Erwin Rommel.

Fury ci trascina invece nel fango, nel cuore delle “scatole dal cuore viola”. Si tratta di un’opera intensa, con battaglie tra carri armate tese e sapientemente orchestrate e un credibile senso di cameratismo tra i personaggi principali. Stravolge, almeno quanti ne abbraccia, tutti i tipici cliché dei film di guerra, e, poiché David Ayer non rispetta tutte le regole, ci sono momenti in cui è piuttosto imprevedibile.

Nel suo famoso discorso alla Terza Armata, George S. Patton disse: “Alcuni di voi ragazzi, lo so, si stanno chiedendo se se la faranno sotto sotto il fuoco nemico. Non preoccupatevi. Posso assicurarvi che farete tutti il vostro dovere. I nazisti sono i nemici. Attaccateli. Spargete il loro sangue. Sparategli nello stomaco. Quando metterete la vostra mano in un mucchio di sostanza viscosa che un momento prima era la faccia del vostro migliore amico, saprete cosa fare.” Questo è uno dei temi portanti di Fury; mostrare come l’esperienza della guerra possa indurire un uomo, trasformando persino il più timido in una macchina per uccidere.

Fury ci presenta l’equipaggio di un carro armato Sherman M4 che si fa strada attraverso la Germania nell’aprile del 1945. Guidati dal loro sergente, il “Wardaddy” Don Collier (Brad Pitt), sono il credente Boyd Swan (Shia LaBeouf), il pugnace Grady Travis (Jon Bernthal) e l’immigrato Gordo Garcia (Michael Pena). Il quinto posto all’intero del mezzo, tragicamente lasciato libero, viene occupato dal dattilografo trasformato in mitragliere e autista Norman Ellison (Logan Lerman), che non è particolarmente entusiasta di stare con i quattro, almeno quanto loro di averlo lì. Durante i momenti di tranquillità, il film offre frammenti dell’interazione talvolta scomposta tra i compagni di (dis)avventura. Ci sono anche cinque o sei battaglie (tra cui una in cui tre Sherman affrontano un Tiger tedesco più grande e avanzato) e un interludio in una città catturata.

Per quanto siano buone le sequenze dei combattimenti (e lo sono molto), i momenti migliori di Fury si verificano proprio durante quell’interludio. In esso, Don e Norman trovano due donne tedesche nascoste in un appartamento (Alicia von Rittberg e Anamaria Marinca). Chiudono a chiave la porta dietro di loro. In quel frangente, non è chiaro che piega prenderanno le cose. Sebbene Don sia un tipo eroico, il film ha già mostrato come le asprezze del conflitto mondiale lo abbiano cambiato. La spietatezza ha fatto breccia nella sua personalità (ben illustrata dall’esecuzione di un prigioniero). C’è incertezza su come questo incontro si risolverà e una spiacevole tensione che potrebbe portare al peggio. Don potrebbe mai prender parte a uno stupro (o peggio)? Senza spargimenti di proiettili o di sangue, questo segmento di quindici minuti rappresenta un apice sospensivo per Fury, mentre David Ayer rimuove ampi strati dai suoi personaggi per rivelare chi sono. Poi, ritorna sul campo di battaglia.

Il Don interpretato da Brad Pitt è una versione attenuata dell’Aldo Raine di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino. Allo stesso modo è determinato e intransigente, ma molto meno ‘entusiasta’ di quello che fa. Vive secondo un codice d’onore ben preciso, il cui principio n. 1 è mantenere in vita i suoi uomini.

Il secondo segue invece alla lettera le direttive di Patton di uccidere i nazisti. In particolare, non ha simpatia per le SS. L’unica buona è quella morta, non importa se si è arresa. L’attore è credibile in questo ruolo, svenendo perfettamente nel personaggio.

Logan Lerman non ha la presenza sullo schermo del collega, ma ricopre abilmente il ruolo dell’impiegato trasformato in guerriero. Il suo personaggio ha l’arco narrativo più lungo ed estremo. Shia LaBeouf, che aveva deciso di ritirarsi più o meno dalla recitazione dopo Fury, riesce a qui a dimostrare come mai anni prima era stata la giovane promessa su cui gli studi di Hollywood avevano scommesso. Michael Pena e Jon Bernthal danno colore al quintetto, con professionalità.

David Ayer (già sceneggiatore di Training Day e regista di End of Watch) fa quasi tutto nel modo giusto in Fury. Cattura il lato grottesco della guerra senza rimuoverne completamente l’importante coefficiente eroico. Non si tratta di due ore in sullo stile della memorabile scena dello sbarco in Normandia di Salvate il soldato Ryan, ma ha una sensibilità simile: il significato della guerra per quelli che stanno in prima linea e in trincea è “sopravvivenza”. È uccidere o essere uccisi.

La ricerca di qualcosa di più ‘alto’ di un altro giorno di vita è lasciata ai generali, agli strateghi e ai politici. Le battaglie feroci tra i carri armati sono presentate con un senso di verosimiglianza tanto forte quanto mai visto prima sul grande schermo in un film che parla della Seconda Guerra Mondiale (con una dipendenza limitata dagli effetti speciali). Fury – che è costato 68 milioni di dollari (e ne ha incassati oltre 210) – offre allo spettatore anche tempi di ‘inattività’ sufficienti ad arricchire e sfaccetare i protagonisti, ma non al punto da far crollare il ritmo.

Come prevedibile, nel 2014 non ottenne nemmeno una candidatura ai successivi Golden Globe o Oscar, ma Fury resta un film per molti aspetti memorabile, che raffigura accuratamente gli orrori della guerra senza gioire della depravazione dell’uomo (come il Platoon di Oliver Stone). Parimenti, mostra esempi di umanità senza ricorrere alla prospettiva entusiastica ed edulcorata tipica di molte pellicole del genere uscite negli anni ’50 e ’60. Non esattamente un risultato scontato.

Di seguito il trailer italiano di Fury:

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Published by
William Maga