Il Direttore della Mostra del Cinema nell'occhio del ciclone. Recensioni lampo per i film Cari compagni!, Padrenostro, Quo vadis, Aida? e Assandira
Il Gazzettino definisce “probabile” la riconferma di Alberto Barbera, il cui mandato è in scadenza dopo otto stagioni, alla guida della Mostra del Cinema. Ciononostante il Direttore si trova in questi giorni al centro di contestazioni, che per gran parte non si merita. Per un verso, Le Monde ha apostrofato come “amorfa, in clima di alta sicurezza sanitaria” la presente edizione, ma sul punto hanno invece parlato a favore gli altri organi di stampa internazionali, e poi comunque non è detto che non possa essere inteso anche come un complimento. Lo stesso presidente della Biennale Roberto Cicutto ritiene che si tratti di un’edizione ‘test’, che il mondo invidia chiedendone spesso anche la formula.
Cicutto ci pare un po’ propenso ad esagerare, come quando definisce un tappeto rosso non visibile ai presenti “metafisico, alla De Chirico”. Su altri due punti Barbera ottiene la nostra solidarietà: la critica, formulata nientemeno che da Variety, sulla mancata presenza in giuria di un uomo o una donna di colore, e quella per non aver imitato la Berlinale abolendo i premi di genere (per intendersi: miglior attore e miglior attrice) per mantenerne uno unico. Circa il primo argomento Barbera l’ha correttamente liquidato come un’ossessione americana per il politicamente corretto, aggiungendo poi però, come fanno coloro che ritenendo un po’ debole l’argomento principale ne aggiungono a iosa ottenendo invece l’effetto contrario, che quest’anno era difficile viaggiare. Questa parte della risposta è forse ancora più metafisica del tappeto rosso di Cicutto.
Si tratta di un testo che può essere considerata l’ideale prova da attrice, proprio come il pirandelliano Uomo dal fiore in bocca può esserlo per un attore maschio. In Italia è rimasta memorabile l’interpretazione di Anna Magnani nel film a episodi L’amore, per la regia di Roberto Rossellini, ma ve ne fu anche una versione radiofonica di Andreina Pagnani, che molti ricordano come Signora Maigret negli sceneggiati televisivi con Gino Cervi. La Swinton è perfetta nel rendere la disperazione di questa donna appena lasciata, che telefona all’amante di cui è ancora invaghita senza che se ne senta la voce. Ad aumentare la drammaticità della situazione, oltre a un tentativo di suicidio di lei, contribuisce il continuo interrompersi della comunicazione per via dei problemi sul servizio telefonico dell’epoca. Una trovata geniale di Cocteau, quest’ultima, che l’altrettanto geniale Almodóvar appariglia con due sue: i meravigliosi titoli di testa creati utilizzando utensili da officina meccanica e il gioco di continua rottura e ricostituzione della quarta parete nell’allestimento scenico. Un piccolo gioiello di trenta minuti, reso ancor più prezioso dalla possibilità di interpretare questo lavoro anche come un’allegoria della disperata solitudine che ci è toccato vivere in questi tempi di pandemia.
A ruota di questo cortometraggio, forse per non dover procedere dopo soltanto mezz’ora alle procedure di evacuazione e sanificazione della sala, è stato presentato un film del concorso principale, Quo vadis, Aida?, della regista Jasmila Žbanić, sul massacrato compiuto nel 1995 a Srebrenica dai Serbi nei confronti dei Bosniaci. Questo lungometraggio non ha davvero nulla in comune con il corto di Almodovar, all’infuori di una straordinaria protagonista femminile, Jasna Đuričić. È lei a incarnare l’Aida del titolo, un’insegnante prestata alle truppe dell’Onu come interprete tra i caschi blu e i bosniaci rifugiatisi nel campo militare protetto allestito dalle Nazioni Unite, nonché durante i negoziati di questi con le truppe serbe del Generale Ratko Mladić. La storia personale di Aida si sovrappone a quella militare, dal momento che l’interprete lotta con tutte le sue forze per garantire la salvezza al marito e ai suoi due figli, anch’essi presenti nel campo Onu. Un film diretto in maniera classica, senza alcun fronzolo, con due grandi motivi d’interesse: da un lato, la denuncia dell’impotenza delle Nazioni Unite, incapaci di garantire la protezione di coloro che avevano preso sotto il loro scudo e pronti a consegnarli ai mitragliatori serbi; dall’altro lato, il dramma familiare di un’eroina che, nel battersi in favore dell’umanità fregandosene dei protocolli, ricorda la crociata di Antigone contro Creonte in nome delle leggi di natura.
L’ottima sceneggiatura riesce a ricostruire con poche frasi il metodo dei controllori (“Non si può accettare uno sciopero in un paese socialista”) e la sudditanza dei controllati anche quando si trovano spaesati (“Vorrei che ritornasse Stalin: ai suoi tempi era chiaro chi fossero i buoni e chi i cattivi”). La forza di questo film è costituita proprio dal dubbio, di cui diventa vittima Lyudmila, funzionaria dura e pura del partito ma anche madre amorevole di una diciottenne figlia ribelle nonché operaia proprio della fabbrica dove è stato compiuto il massacro. La madre non trova più la figlia, così inizia una ricerca disperata alternando da un lato la speranza che si sia nascosta al timore che sia stata uccisa, e dall’altra la rinnovata fede nell’Idea politica allo sgretolarsi delle sue convinzioni. Anche in quest’opera l’interpretazione della protagonista Julia Visotskaya (moglie del regista), costituisce uno dei motivi di forza, proprio come in quella precedentemente descritta, ma rispetto ad essa questa si staglia per una superiore qualità di regia, capace di ottenere un coinvolgimento emotivo maggiore anche grazie al suggestivo uso del bianco e nero.
Nonostante i suoi 45 anni, egli appare un regista alle prime armi (in effetti ha prodotto poco in carriera), dunque vittima di tutte quelle ingenuità dei principianti: il desiderio di unire il taglio di cronaca a quello autoriale senza prendere una direzione precisa, l’insistenza in inutili virtuosismi tecnici (innaturali movimenti di macchina, inquadrature strambe dal soffitto, piani sequenza insistiti), che nulla aggiungono e anzi molto sottraggono alla fluidità del racconto. Anche la continua ricerca del contrasto spettacolare, come nella scena del bambino che ascoltando una canzone tenera come Buonanotte fiorellino di Francesco De Gregori rivive la drammatica sparatoria, attribuisce spesso al film un che di posticcio. Considerando che le parti migliori del film sono quelle che raccontano il rapporto padre-figlio, e che sono ben calati nei ruoli sia il sempre bravo Pierfrancesco Favino (qui anche produttore) sia il piccolo, pure bravo, Mattia Garaci, potevano essere approfondite maggiormente e in modo più semplice quelle, senza bisogno di tante divagazioni.
Gavino Ledda interpreta il custode di una tradizione che egli ben conosce nella realtà e che sta scomparendo, fornendo una ottima prova d’attore nonostante egli non lo sia, o forse proprio perché non lo è. Oltretutto spetta a lui il merito di aver pensato alcune delle scene più riuscite, come la lunga sequenza iniziale dell’incendio e quella successiva sotto la pioggia. Purtroppo Assandira divaga incartandosi su un’inutile indagine – che ha l’unico merito di proporre un interessante confronto umano tra il magistrato e il vecchio pastore – oltre che su alcune parentesi gratuite come un viaggio in Germania. Anche qui sarebbe stato più opportuno concentrarsi sul punto di forza, ovvero il contrasto tra la vecchia e la nuova generazione di sardi.
È triste dunque dover concludere l’analisi di questi cinque film notando che, a differenza di quanto accade nel cinema straniero, ricorre in quello italiano un’incertezza di stile e una stucchevole tendenza alla retorica che ci lasciano amaramente indietro di molto più di un passo.
Di seguito il trailer ufficiale di Assandira, nei cinema dall’8 settembre: