Il regista giapponese ci porta nel Giappone in subbuglio del XIX secolo, proseguendo la sua opera di demitizzazione della storia del suo paese e di riflessione sulla violenza
Dopo aver esplorato quattro anni fa l’orrore assoluto della guerra con Nobi / Fires on the Plain (ancora inedito dalle nostre parti), Shinya Tsukamoto è tornato – in concorso – alla Mostra del Cinema di Venezia (quarta volta consecutiva al Lido) per presentare la sua più recente fatica, Zan (Killing), un dramma revisionista nel quale, come lui stesso ha tenuto ad affermare, ha riversato il proprio “urgente urlo” scaturito dalla crescente inquietudine verso l’attuale situazione del mondo.
Gli spettatori vengono tenuti all’oscuro della guerra civile in fermentazione provocata dall’apertura del Giappone alle influenze dell’Occidente verso la metà del XIX secolo (in particolare, la Marina militare americana ha inviato il Commodoro Perry nel paese per stimolare il commercio con gli Stati Uniti) – ma tutto quello che dobbiamo sapere per calarci adeguatamente nella vicenda narrata è che Jirozaemon sta sostanzialmente privando una piccola comunità agricola di mani preziose per andare alla ricerca di qualche dubbio lavoro da mercenari in una grande città.
È la premessa di I Sette Samurai di Akira Kurosawa rivoltata e degradata. Non solo; l’assembramento del manipolo di guerrieri si inchioda praticamente sul nascere: dopo aver reclutato Mokunoshin e il soldatino adolescente entusiasta, ma per niente qualificato, Ichisuke, Jirozaemon infatti viene distratto non solo dall’arrivo nel villaggio di un gruppo di ronin fuorilegge capeggiati dal terribile Sezaemon Genda che si sono votati al banditismo, ma anche alla grave febbre che colpisce Mokunoshin proprio mentre i tre stanno per partire alla volta di Kyoto. Le vite di tutti cambieranno quando l’irruento Ichisuke sfiderà i fuorilegge a duello.
Con Zan (Killing), Shinya Tsukamoto arriva infine alla soglia dei 60 anni a toccare con mano l’imprescindibile tradizione (anche cinematografica) dei samurai del suo paese, e il risultato – se si conosce almeno un po’ la sua storia – non può che essere sovversivo. Con un’operazione continuativa rispetto a quanto già avvenuto per il feroce film del 2014, qui si arriva a mettere in discussione l’intera premessa del ‘sacro’ codice d’onore del samurai, ovvero che sia assolutamente giusto uccidere un altro essere umano per una (supposta) giusta causa. Siamo quindi lontani dalle rivisitazioni – pur eccellenti – del collega e connazionale Takashi Miike operate con 13 Assassini e Hara-Kiri: Death of a Samurai e più vicini a On the Road Forever di Kenji Misumi.
Girato con un budget bassissimo e con uno stile poco contemplativo e molto nervoso, il regista gira gli appena 80 minuti di pellicola (il minutaggio largamente più basso del concorso) tra risaie punteggiate da semplici casette in legno e fitte foreste gocciolanti di umidità (e poi di sangue), ci conduce in un mondo frammentato, esattamente come chi lo popola, tra natura selvaggia – caratterizzata da una colonna sonora a decibel sparati orchestrata dal recentemente scomparso Chu Ishikawa con tamburi martellanti e voci dense di presagi – e ordine sociale stabilito.
Non c’è gloria nell’ammazzamento. Quanto Mokunoshin è abile nella simulazione di lotta con i bastoni, tanto si trova paralizzato quando in mano si ritrova il freddo acciaio. L’ansia di partire per la guerra lo affligge al punto che – proprio come i ragazzi quando hanno un compito in classe per il quale non sono preparati – si ‘induce’ una febbre che lo paralizza a letto, rimandando così di almeno un altro giorno il destino a cui è intenzionato a sfuggire. E questa sua incapacità di diventare ‘adulto’, almeno secondo l’accezione comune per l’epoca, si riflette anche nell’impossibilità del giovane di avere rapporti sessuali ‘normali’ con la preoccupatissima Yu, limitandosi a un onanismo doloroso e impersonale e ad atti bizzarri.
In ogni caso, Sawamura rimane al fianco del deludente allievo, e questo punizione non può che generare maggiore violenza. Il film si fa così sanguinosa elucubrazione sull’inevitabilità del suo stesso titolo (‘uccidere’), inteso sia come punizione crudele che come necessaria autodifesa, prima però di scegliere sfumare la linea che separa i due: “Se non puoi uccidere, la tua spada è inutile“. L’atto finale è quindi un concentrato di onore, coraggio e vendetta, che entrano inevitabilmente in gioco quando suo malgrado Mokunoshin si prepara a dare una risposta alla domanda che grava su di lui e le cui conseguenze non avranno, come prevedibile, strascichi edificanti per nessuno.
In attesa di capire quando – e soprattutto se – verrà distribuito dalle nostre parti (cosa tutt’altro che scontata purtroppo), di seguito trovate il trailer internazionale di Zan (Killing), che uscirà nei cinema del Giappone il prossimo 24 novembre: