Nel 1976 il filmmaker dirigeva - e interpretava, accanto a Isabelle Adjani e Melvyn Douglas - un thriller psicologico capace di serpeggiare negli anfratti della paranoia e negli anditi dell'assurdo
Nel novembre del 1976, Roman Polanski portava nei cinema italiani la sua ultima fatica, L’inquilino del terzo piano (Le Locataire), in cerca di un qualche ‘indennizzo popolare’ dopo esser stato ingiustamente ignorato dalla giuria del Festival di Cannes la primavera precedente. L’appello venne accolto, col film che riuscì a conquistare chi ricercava al cinema i piaceri dell’immaginazione per cui l’autore polacco naturalizzatosi francese era noto: ironia, imprevedibilità, inquietudine e scaltrezza. Un vero Ulisse del grande schermo.
L’insicurezza dell’uomo comincia a trasformarsi in manie di persecuzione quando prende in affitto un vecchio appartamento ammobiliato, lasciato libero da una donna che si è buttata dalla finestra per ragioni inspiegabili, e si mette in mente che gli altri abitanti del palazzo vogliano fargli fare la stessa fine. Le loro continue lamentele nei suoi confronti (perché fa troppo rumore, perché porta in casa gli amici), il fortuito ritrovamento di un dente nascosto nel muro, certe misteriose apparizioni nel gabinetto di casa e l’arrivo dei ladri sono perciò da Trelkovsky interpretate come la prova di un complotto.
E a niente vale che egli cerchi conforto presso una ragazza, Stella (Isabelle Adjani), un’amica della morta, disposta a generose gratifiche: in breve tempo il cervello gli dà di balta. Identificandosi con la suicida sino a indossarne gli abiti e usarne i cosmetici, passa notti di incubo, fugge in una camera d’albergo, si fa investire da un’auto, e finalmente anche egli si butta dalla finestra. SPOILER Sopravvissuto, Trelkovsky torna a gettarsi nel vuoto, ma nell’ultima scena lo vediamo al proprio capezzale: segno che forse tutto è stato soltanto un’allucinazione, motivata da un oscuro senso di colpa e da una frustrante ambiguità sessuale.
Giocando su una tastiera che parte dai toni del realismo fantastico e attraverso il thriller raggiunge il surreale, Roman Polanski firma con L’inquilino del terzo piano un film del malessere, non a caso ironicamente contrapposto, in una citazione, al cinema virilistico di Bruce Lee (citato apertamente in una sequenza). Per raccontarci il dramma di un uomo che si autodistrugge mentalmente (e chissà se in filigrana non si debba leggere la parodia di certi cineasti, rimasti allora pur fra mille paure nei paesi dell’Est Europa), il cineasta infatti inventa un universo di continui sospetti, e lo esprime con un gusto visivo che trova nei volti, nei piccoli gesti, nell’abbaiare di un cagnolino, nel cigolio d’una porta, nel buio d’un corridoio e nelle parole di un prete, crescenti motivi d’allarme. Per tornare a saggiare il proprio talento anche nella recitazione, Roman Polanski stesso interpreta la parte di Trelkovski, e con esito soddisfacente.
La fotografia suasiva di Sven Nykvist e la musica insinuante di Philippe Sarde hanno ovviamente in quest’opera di atmosfere un peso notevole, e tuttavia L’Inquilino del terzo piano resta senza equivoci un film d’autore. Per l’astuzia con cui mischia brividi e sorrisi, per la geometrica malizia che lo apre e lo chiude con un grido d’orrore, per l’uso del sonoro, e per quel seme di follia, un po’ gratuita, un po’ preziosa, che sempre fiorisce in Roman Polanski.
Di seguito il trailer internazionale: