Tom Cruise è l'avventato protagonista di un biopic che preferisce puntare sul lato più leggero della vicenda, tralasciando qualsiasi approfondimento critico
Anche la sceneggiatura di Barry Seal – Una storia americana (American Made) risente evidentemente della turbolenta produzione che ha gravato sul film fin dall’inizio. Tratta l’aggrovigliata storia di Barry Seal (già raccontata peraltro nel dignitoso e dimenticato Un gioco pericoloso con Dennis Hopper), un pilota di linea della TWA che tra la fine degli anni ’70 e la metà degli ’80 venne realmente assoldato dalla CIA per scattare fotografie aeree ravvicinate delle basi comuniste ubicate in Sud America. Allo stesso tempo però, l’uomo si mise a lavorare segretamente per il potente e pericoloso cartello di Medellin in Colombia, capeggiato da Pablo Escobar, per aiutarli a contrabbandare droga negli Stati Uniti. Interpretata da Tom Cruise e diretta da Doug Liman (già al lavoro insieme in Edge of Tomorrow – Senza domani), la pellicola – per ragioni di minutaggio – racconta l’intera vicenda di doppi e tripli giochi di Seal, senza però approfondire mai a sufficienza le psicologie dei suoi personaggi, maggiori o minori e nel tentativo di comprimere quasi un decennio di caotici avvenimenti in 114′, finisce per diluire qualsiasi interessante conflittualità.
Troppo prevedibilmente, Tom Cruise plasma infatti Barry su sé stesso, riducendo il tutto ai classici sorrisi a trentadue denti e all’arrogante “Va tutto bene, ci penso io!”. Non che questo chiarisca l’opinione che la pellicola abbia di lui o perché la storia sia raccontata attraverso le registrazioni degli eventi su nastro dall’uomo. E’ ingenuo, è avido o è un opportunista? La risposta, a quanto pare, è un po’ di tutto … Nessuno e niente in BS-USA viene delineato con fermezza, compresa la condizione economica piuttosto oltre lo straordinario in cui viene a trovarsi Barry. E’ annoiato e stanco del suo lavoro e quindi del tutto motivato dal denaro. La precoce possibilità di essere incriminato per contrabbando di sigari cubani non aiuta, ma il pilota è apparentemente il tipo disposto a perseguire ogni opportunità che gli si presenta, il che diminuisce notevolmente il suo conflitto morale interiore.
Sua moglie Lucy poi (Sarah Wright), è tutt’altro che un forte contrappunto emotivo. In una sequenza piuttosto ridicola, Barry torna a casa nel cuore della notte col volto ferito, gli manca un dente in bocca dopo un breve soggiorno in prigione e le dice che tutta la famiglia deve fare i bagagli e partire immediatamente. Il clamoroso senso del dovere della donna qui, che prova ad arrabbiarsi soltanto una volta prima di innamorarsi perdutamente della quantità di denaro che Barry le sbatte in faccia e dalla concreta possibilità di realizzazione dello stile di vita capitalistico, è inspiegabile. Il film non le dona una voce abbastanza alta da poter anche solo provare a contestare le rischiose – e illegali – azioni del marito. Lei vuole solo evitare di tornare a lavorare dietro al bancone di un KFC e tanto basta. In un’altra scena cruciale, Barry le rivela che sta lavorando per la CIA, ma il film taglia immediatamente dopo la di lei reazione, semplicemente trattando il suo sguardo di incredulità come battuta finale del topico momento.
Lungo la strada, Barry si imbatte ovviamente in molti altri figuri, senza che qualcuno di essi lasci un segno concreto. Monty Schafer (Domhnall Gleeson) è l’agente della CIA che scopre Barry e che comincia ad affidargli incarichi. La sua prima scena, in cui accusa Barry di attività criminali nel bel mezzo di una bar all’aeroporto, è ben poco plausibile – a posteriori avrebbe dovuto essere un monito sul tono degli eventi a venire – e non scopriamo praticamente mai veramente molto su di lui. Il gruppetto di boss colombiani aggiunge qualche vago e pittoresco brivido all’equazione, ma anche qui il loro sottosviluppo pregiudica tutto (Narcos sta da un’altra parte e tra l’altro Seal compare pure lì …), con Escobar e gli Ochoa che vengono trattati come special guest a piè di pagina che fanno colore alle scampagnate sotto il confine.
Sia ritmicamente che stilisticamente, il film utilizza il logoro modello caro a Martin Scorsese del voice over, del fermo immagine e del montaggio incrociato, a la Quei Bravi Ragazzi (1991) e Casinò (1995), per racconta la classica vicenda di come uno schema per fare soldi si estenda fino alla nascita di un impero, prima dell’inevitabile caduta del regno. Lo scorso anno, tanto per non andare troppo lontani nel tempo, Trafficanti di Todd Phillips aveva usato le stesse tecniche stilistiche e ispirazioni per raccontare qualcosa di simile. Vedere questi due film inoltre, fa sorgere la sibillina domanda se siano stati appositamente progettati come black comedy per ammorbidire in qualche modo le azioni moralmente dubbie dei loro protagonisti. Basandoci su quanto ci viene detto infatti, la droga e le armi da fuoco fanno soltanto parte del gioco di alcuni ragazzi spensierati quando in ballo ci sono grandi quantità di soldi da mettersi in tasca.
Se qualcuno fosse interessato a vedere un’opera di finzione che tratta nel modo giusto il rapporto tra i Contras nicaraguensi e la CIA, meglio allora puntare su La regola del gioco (2014), che ha esplorato l’inchiesta giornalistica che collegò l’amministrazione Reagan al traffico di droga a San Francisco – un angolo scomodo lasciato sapientemente fuori dal quadro in BS-USA a vantaggio di un’avventura più spensierata alla Prova a Prendermi, se non che Liman non è Steven Spielberg e Cruise non ha la verve comica di Leonardo Di Caprio.
Di seguito il trailer italiano di Barry Seal – Una storia americana, nei nostri cinema dal 14 settembre: