Teresa Palmer e Max Riemelt sono i protagonisti di un thriller psicologico che mette da parte velleità exploitation per esplorare a fondo le dinamiche tra vittima e carnefice
I mostri più spaventosi non sono quelli indistruttibili o soprannaturali come i Jason Voorhees o i Freddy Krueger di note saghe horror. Piuttosto, lo è l’uomo nero che vive nella porta accanto. Berlin Syndrome – In Ostaggio dell’australiana Cate Shortland (Lore) fa leva su esempi di paranoia ben presenti nel mondo reale e timori associati particolarmente alle donne: viaggiare da sole, farsi coinvolgere sentimentalmente/fisicamente troppo in fretta da una persona attraente che si incontra per strada, rivelare informazioni personali al misterioso oggetto del desiderio. Quando un introverso insegnante di inglese – e allenatore di una squadra giovanile di basket – esercita il suo fascino da bravo ragazzo su una aussy che sta esplorando la metropoli tedesca zaino in spalla, l’attrazione di lei è abbastanza comprensibile. Naturalmente, conoscendo la piega che prenderà la storia, nei primi minuti ogni sua azione è tuttavia seguita da una nota di disappunto da parte dello spettatore che deve assistere impotente alla sua avventatezza.
Come spesso capita – specie nei film – bisogna sempre far attenzione a quello che si desidera.
La mattina successiva, Andi è già uscito da molto tempo quando Clare si sveglia, prepara le sue cose e cerca di andarsene. Sulla porta di ingresso è infatti presente una pesante barra di acciaio e nessuna traccia di una chiave nei paraggi. La ragazza deve quindi trattenersi fino a quando il professore non torna a casa da scuola. “Mi hai chiusa dentro?” gli dice, ridendo. Andi va avanti con questo non-scherzo, mentre i giorni scorrono e Clare si rende conto di essere davvero imprigionata.
La Shortland e Shaun Grant hanno adattato lo script dall’omonimo romanzo scritto da Melanie Joosten. Nonostante la sottile sequenza di eventi che portano alla prigionia di Clare, gli sceneggiatori sono stati attenti a non far passare la vicenda come se fosse diretta conseguenza delle sue azioni estremamente ingenue. Naturalmente, tutti – specialmente chi viaggia in solitaria in un paese straniero, anche se apparentemente non ‘a rischio’ (in questo senso fa sorridere che per una volta si invertano le parti tra la ‘pericolosissima’ Australia, terra cinematografica di psicopatici per antonomasia, e un ‘civilissimo’ paese occidentale) – dovrebbero sempre tenere gli occhi ben aperti, specie perchè, come sappiamo, la realtà supera spesso la fantasia.
Clare aveva però socializzato in precedenza con altri sconosciuti senza alcun incidente di sorta, e l’affabile Andi di Riemelt sembra essere un tranquillo non-psicopatico intelligente e riflessivo. Sicuramente una giovane donna single può indulgere in una piccola storia d’amore mentre di trova in vacanza no? Al di là di un classico e lampante momento ‘Non farlo!’, Clare è una prigioniera ingegnosa, che sa bene quando comportarsi secondo le regole e come invece provare a sfruttare il tempo in cui è da sola. C’è un momento in cui sembra che sia caduta in preda alla Sindrome di Stoccolma con cui gioca evidentemente e ambiguamente il titolo del film, ma non è affatto chiaro se siano sensazioni genuine.
Durante le sue lezioni di inglese, l’uomo sembra godere nell’utilizzare passaggi che indugiano sulla vergogna e scivolano verso la ricerca di uno scopo nella vita, una descrizione non lontana da quella che lo caratterizza. Si mostra giustamente come una persona equilibrata e prudente al di fuori della sua sordida pulsione al rapimento sessuale (condito da agghiaccianti polaroid scattate di nascosto alle vittime), quindi non sorprenderebbe scoprirlo disprezzare le proprie azioni e provare disgusto per sé stesso. Per entrambi gli attori comunque, le espressioni facciali e il linguaggio del corpo parlano più di mille parole qui, con Andi – e soprattutto Clare – lasciati liberi di gestire l’intera gamma delle emozioni provate.
Non mancano poi dialoghi dall’umorismo grottesco che tentano di alleviare la perversa dolcezza e il disagio tra Clare e Andi, come quando l’uomo torna a casa scoprendo che lei ha usato una sedia per provare a rompere le finestre rinforzate: “Ho appena comprato queste sedie”, afferma pacato mentre lei lo guarda incredula.
Certo richiede un bel po’ di sospensione dell’incredulità vedere come Andi – che evidentemente è pratico del ‘gioco’ – riesca a mantenere in piedi tutta questa sciarada senza essere scoperto, o allo stesso modo come Clare possa rimanere bloccata non all’interno di una stanza, ma di un intero appartamento (che sia isolato o meno), senza trovare alcun mezzo di fuga, ma le potenti performance e il lavoro sui personaggi aiuta a superare questi problemi. Anche il finale non arriva certo come una sorpresa, ma a quel punto la sceneggiatura ha già fatto il suo dovere, portando in scena un’opera che magari deluderà chi va in cerca di exploitation pura ma che sicuramente soddisferà chi vuole andare oltre i consueti cliché del sottogenere.
Di seguito il trailer di Berlin Syndrome – In Ostaggio: