La Pixar realizza un racconto di formazione classico, reso fascinoso dall'immaginario e dal folklore propri della cultura messicana
Piacevole bildungsroman denso di folklore e a tratti un po’ stereotipato, Coco di Lee Unkrich (Toy Story 3 – La Grande Fuga) e Adrian Molina (story artist di Monsters University), che ne scrive anche la sceneggiatura, porta su grande schermo una fiabesca messicanità, capace di stupire con le ammalianti trovate visive made in Disney Pixar.
Il romanzo di formazione, quindi, piuttosto lineare e a tratti fin troppo semplicistico, ha per protagonista come d’uopo un bambino, Miguel (doppiato nella versione originale da Anthony Gonzalez), che ha un grande desiderio, quello di diventare musicista come il suo mito, il celeberrimo Ernesto de la Cruz, ma la sua famiglia da generazioni ha bandito la musica dalle mura domestiche. Infatti, ogni avo di Miguel fabbrica scarpe e aborrisce ogni forma melodica da quando un antenato, il marito di Mamma Imelda, abbandonò lei e la figlia piccola – nel presente l’ottuagenaria Nonna Coco-, per girare il mondo ed esibirsi per la gente.
Avventura un po’ fanciullesca, è vero, Coco è d’altra parte destinato a un pubblico giovanissimo, ma riesce comunque a introdurre qua e là spunti e suggestioni che anche uno spettatore adulto può apprezzare. In particolare, molto riuscita è la componente visiva: non è tanto la raffigurazione delle anime ospiti della Terra dei ricordati, i quali rimandano agli scheletri burtoniani di La Sposa Cadavere (Corpse Bride) declinati a un gusto latino, quanto nella resa dell’oltretomba quale luogo denso di colori, dove mille edifici di svariati toni luminosi si stagliano sospesi nell’aria, palafitte nel cielo, in un panorama che ha quasi dello spazio calviniano, rievocando alcune pagine di Le città invisibili.
Similmente, sono rimarchevoli alcuni dettagli che traducono in chiave fantastica usi reali, come il ponte di petali di cempasúchil (o Garofano d’India), di cui vengono cosparse le strade nel Giorno dei Morti secondo la tradizione autoctona e in cui sprofondano gli spiriti come Hector, dei quali nessun familiare espone la fotografia sull’altare votivo casalingo; memorabile l’effetto delle sabbie mobili di petali arancioni che si aprono sotto il peso del corpo ossuto, fagocitandolo e impedendogli di proseguire. Altrettanto inventivi e accattivanti sono gli iridescenti spiriti guida che nell’Aldilà affiancano gli umani ormai trapassati, come il possente felino alato Pepita ideato dal character artist Alonso Martinez, che si ispira alla mitologia e alle illustrazioni tradizionali messicane.
Meno articolata è invece la narrazione e l’evoluzione dei personaggi, che seguono uno schema piuttosto convenzionale, con il prototipico protagonista adolescente che si scontra con le pressioni degli adulti, affronta una serie di peripezie e difficoltà, vincendo le quali riesce infine riesce ad affermare la propria individualità. Insomma, si tratta del percorso formativo condiviso da innumerevoli titoli, da La spada nella roccia in giù. D’altra parte è quivi palese il prepondere di un’evocativa descrizione del folkrore messicano e dell’intento educativo sulla creazione di un racconto particolarmente originale o ricco di sfumature; anzi, la componente diegetica si limita a una congerie di edificanti buoni sentimenti e colpi di scena piuttosto scontati (impossibili da approfondire senza cadere in spoiler).
Di tali imperfezioni, tuttavia, ci si avvede in Coco, di per sè gradevole seppur senza eccezionali pretese, almeno finché non lo si confronta con un altro film d’animazione uscito nel 2015 (curiosa coincidenza): Il libro della vita (The Book of Life) diretto da Jorge R. Gutierrez e prodotto da Guillermo del Toro. Se difatti il cartone Pixar non brilla per originalità o profondità, il suo omologo della Fox riesce ad affrontare il medesimo argomento (ossia il Giorno dei Morti) e un concept assai affine (un giovane che si oppone alla propria famiglia per inseguire il proprio destino) con molta più disinvoltura, rielaborando il patrimonio vernacolare senza soffermarsi solo sulla configurazione infera messicana, ma ricorrendo a essa solo quale scenario per una fiaba romantica che, benché con le debite semplificazioni e ingenuità, risulta assai più completa.
Il tutto si concluse con l’assunzione di Marcela Davison Aviles, C.E.O. del Mexican Heritage Corp., come consulente per una corretta resa del patrimonio vernacolare messicano e del fumettista Lalo Alcaraz (uno dei promotori della protesta); in ultimo l’uscita in sala di Il libro della vita ha, come sappiamo, preceduto quella di Coco di oltre due anni, pur senza avere il riscontro di pubblico che si sarebbe meritato.
Nonostante tutto, traversie e omologhi compresi, Coco – che uscirà nei nostri cinema il 28 dicembre -, è nel complesso un film fruibile e dallo svolgimento leggero e scorrevole, perfetto sicuramente per morale, contenuti e variopinta animazione per gli spettatori in età scolare e forse anche inferiore.
Postilla: il film perde parecchio nel doppiaggio in italiano, soprattutto nella componente canora (tutte le canzoni sono state ricantate nella nostra lingua).
Di seguito il trailer in italiano di Coco, per farsi un’idea: