Gael García Bernal e Jeffrey Dean Morgan danno vita a una pericolosa partita nel deserto in un thriller che non riesce a trovare un equilibrio tra il tono e il messaggio
Il regista messicano Jonás Cuarón è noto per le sue collaborazioni con il padre, Alfonso Cuarón, in particolare in Gravity. Ma il thriller sull’immigrazione Desierto – seconda prova dopo Year of the Nail – è ancorato saldamente a terra, anche se risponde ai dettami imposti da quasi cento anni di opere come Pericolosa partita e La preda nuda. Questo, solo, si basa su questioni politiche e familiari per raccontare una storia tesa e ricca di azione, con una tensione latente che va oltre il film.
L’uomo è un ex militare, come suggeriscono i suoi pantaloni mimetici e l’uso di un certo gergo specifico. La sua kefiah lo lega inoltre al Medio Oriente. Cuarón si ferma giusto un pelo prima dall’appiccicargli un adesivo con la faccia Trump sul paraurti del pick-up. Scopriamo molto poco dei motivi del suo comportamento, a parte un paio di battute urlate a mo’ di motti: “Benvenuti nella terra della libertà”, ringhia, oppure sibila, “Questa è la mia casa!” in occasione di una delle uccisioni. Durante uno degli appostamenti, nei pressi di un falò da campo, si lamenta per la sua testa “incasinata” con Tracker. Un uomo così traviato dal patriottismo che ha perso tutta la sua umanità. Questo, oppure qualcuno che sta usando il patriottismo come maschera per i propri istinti omicidi.
La sceneggiatura è risicata, l’unico momento in cui veniamo a sapere qualcosa dei due protagonisti è durante la notte, quando il cacciatore e la preda si fermano per pochi minuti, abbastanza a lungo per rimpolpare un po’ le ragioni del loro essere lì nel deserto. Moises ha un figlio che lo aspetta, Sam è minacciato dagli stranieri.
Desierto è un thriller come un altro che per caso si ritrova avvolto in una confezione politica. L’imballaggio è a volte più interessante delle emozioni stesse, ma il film è abbastanza spoglio da permette a ognuno di proiettare su di esso ciò che preferisce. Sembra anche che Cuarón abbia cercato di mostrare i muscoli della suspense e ci sono un paio di ottime sequenze che possono rientrare tra quelle classiche del genere, in particolare quando il giocattolo elettronico di un bambino riecheggia per tutto il canyon silenzioso.
Il film finisce però per diventare un infinito gioco alla Beep Beep e Wile E. Coyote, che testardamente si inseguono l’un l’altro attraverso le distese aride, rincorrendosi e girando intorno a quella che sembra essere sempre la stessa roccia. Difficile non pensare a una metafora dell’attuale clima politico (americano, e non solo).
Il trailer di Desierto: