Il romanzo di Dan Wells viene adattato senza mordente, gettando al vento l'interpretazione più oscura di Christopher Lloyd mai vista sul grande schermo
Interessante nei presupposti, meno nella realizzazione, I Am Not a Serial Killer di Billy O’Brien trasmette la sensazione che non sia stato osato abbastanza, né visivamente, né a livello della resa della psicologia criminale.
Tutto il discorso si può racchiudere nella scena d’apertura: il preside chiama a ricevimento la madre, suo figlio ha scritto un inquietante tema dove si sofferma con eccessiva dovizia ed interesse sulle torture, è solo vezzo artistico o c’è qualcosa di più? Questo interrogativo è costante, l’aspetto forse più riuscito del film risiede proprio nel fatto che indaghi sull’idea stessa di normalità, su quale sia il limite oltre al quale l’emarginazione, l’originalità e la curiosità verso i criminali psicopatici di un adoloscente divengano un indizio di altro, di qualcosa di molto più oscuro e pericoloso. Fenomenologia psichiatrica che indaga i segnali anticipatori di un presunto assassino seriale, ci vengono descritti allora attraverso le parole di John stesso tutti gli step da manuale che precedono l’omicidio, dall’uccisione di piccoli animali alla piromania, fino all’incapacità totale di empatia. Il ragazzo è consapevole, cerca di controllare una pulsione, un bisogno quasi fisico con la routine, ma qualcosa attrae d’improvviso la sua attenzione: in città si susseguono numerosi orribili delitti e i cadaveri sono ritrovati sulla scena del crimine senza alcuni organi interni.
Prima ossessionato da una sagoma sfuggente e dalle sue azioni, sembra quasi che il giovane riesca a percepire la presenza del serial killer, quasi lo riconoscesse in qualche modo, e ne fosse attratto. I turpi omicidi procedono e John identifica colui che li compie (incarnato da un ottimo Christopher Lloyd), a questo punto si stabilisce una sorta di impalpabile legame tra i due, tra l’assassino in potenza e quello vero e proprio. Diviene allora una lotta contro la parte più oscura di sé, prima che contro un omicida, in un processo psichico di proiezione: l’adolescente battendo e fermando lo scaltro psicopatico in qualche modo vuole vincere e sopprimere quel mostro che risiede dentro di lui, che rappresenta un richiamo straziante.
Lontano dalla critica antropologica dell’uomo capitalista contemporaneo strutturata in American Psycho di Mary Harron (anche questo basato su un libro), oppure dalla visionarietà e dalla satira mediatica al centro dell’irriverente Assassini nati – Natural Born Killers di Oliver Stone, I Am Not a Serial Killer è molto meno potente e paradossale, a livello di sceneggiatura e dialoghi, nella rappresentazione della psicologia criminale, nonché nel tratteggiare gli omicidi stessi e le scene del crimine, appena abbozzati e poco sconvolgenti, a cui parrebbe venga conferito solo valore molto marginale.
Assistendo allora alle sequenze di I Am Not a Serial Killer, agli infiniti monologhi e scambi dialogati, abbiamo la percezione che lo sviluppo arranchi e la storia non proceda mai, finché non arriviamo al finale, del tutto sconclusionato e assurdo, e la banalizzazione di un discorso piuttosto interessante giunge al massimo compimento.