Un viaggio completo e appassionato nel regno dei sogni e della follia, nella storia dei suo fondatori e dei suoi protagonisti
Fucina dove i sogni prendono la forma di disegni animati, lo Studio Ghibli è una delle case di produzione più rinomate di sempre e insieme alla Toho ha l’incontestabile merito di aver esportato a livello mondiale la cinematografia della sua terra d’origine, il Giappone. Fondato il 15 giugno 1985 da due indiscussi maestri nipponici, i geniali Hayao Miyazaki e Isao Takahata, l’antitetica essenza dei due ha sempre rappresentato le due opposte anime di quel luogo incantato, riuscendo a unire una visione fanciullesca e un’estrema profondità nei temi trattati in un equilibrio perfetto, un notevole successo commerciale e l’unicità della creazione artistica, così da prosperare per più di un trentennio e di acquisire fama universale. Ne nascono pellicole indimenticabili che hanno segnato la storia del cinema, come le miyazakiane Il mio vicino Totoro (となりのトトロ Tonari no Totoro), che ha determinato l’immaginario di generazioni e il cui tenero personaggio è divenuto il logo dello Studio stesso, o La Città incantata (千と千尋の神隠し Sen to Chihiro no kamikakushi), vincitrice dell’Oscar per il Miglior film d’animazione nel 2003, oppure le struggenti e takahatiane Una tomba per le lucciole (火垂るの墓 Hotaru no haka) e La storia della principessa splendente (かぐや姫の物語 Kaguya-hime no monogatari). Non solo, centro attrattivo per grandi talenti, quali Yoshifumi Kondō o Hiromasa Yonebayashi, la politica dell’illuminato colosso cinematografico del Sol Levante ha abbinato notevoli incassi globale, anche grazie all’intelligente operato del produttore e partner di lunga data Toshio Suzuki, a un’indiscutibile qualità e unicità, creando un’impresa attiva e remunerativa, ma realizzando anche film dalla grande levatura artistica, contraddistinti dal disegno a mano combinato con le moderne tecniche d’animazione.
Abbiamo quindi intervistato i due autori del volume, per approfondire alcuni temi chiave, a partire dall’origine del progetto a più mani, al coinvolgimento di Norštejn e degli studiosi che hanno contribuito alla stesura, al confronto tra CGI e animazione tradizionale, fino a riflessioni sul futuro dello Studio Ghibli
Come è nato il progetto e da cosa è scaturita la scelta di una monografia sullo Studio Ghibli?
– F. Con Enrico condividiamo l’amore per l’animazione e in particolare per quella dello Studio Ghibli. Entrambi riteniamo che abbia avuto un ruolo cruciale nella storia degli anime e del cinema tout court, ma anche nella nostra vita privata. Anni fa, durante il Festival del cinema di Roma, si ipotizzò un’idea, un azzardo. Nel frattempo ognuno di noi ha seguito le proprie strade, che talvolta si sono incrociate (abbiamo curato insieme a Davide Tarò la monografia dedicata a Satoshi Kon edita da Il Foglio Letterario). Poi mi si è presentata l’occasione di fare qualcosa con Bietti. Volevano che pubblicassi di nuovo con loro dopo il mio La bomba e l’onda: non ho avuto dubbi, doveva essere il libro che mancava dedicato allo Studio Ghibli e dovevo farlo con Enrico. Senza di lui avrei rinunciato senza esitazione.
– A. La scintilla è partita da Andrea, che aveva già pubblicato con Bietti. Io ci ho pensato un po’, qualche mese, perché dei due sono quello che ha chiaramente il compito di rallentare progetti e scrittura. Mi riesce benissimo.
Come avete coinvolto il maestro russo Jurij Norštejn, al quale si deve peraltro la prefazione?
Il volume vede l’apporto e la partecipazione di molteplici studiosi. Come avete selezionato e coadiuvato il gruppo di lavoro?
– F. Mi è sempre piaciuta l’idea dei volumi collettanei. Non c’è libro che abbia curato in cui non abbia chiesto a qualcuno nei confronti del quale nutrissi profonda stima di contribuire, sempre in un’ottica di perfezionamento del volume stesso. Per Studio Ghibli non è stato diverso: abbiamo chiesto a diversi critici/colleghi/amici di coprire quegli argomenti che sapevamo sarebbero stati più coinvolgenti e completi grazie al loro contributo. Ma abbiamo anche deciso di fare qualcosa di più. Siccome lo Studio Ghibli ha avuto un ruolo di influenza a trecentosessanta gradi, abbiamo scelto di chiedere ad alcuni artisti di dire la loro. Da qui l’idea di coinvolgere i fumettisti Manuele Fior, Sualzo, Emanuele Tenderini e il regista Carlo S. Hintermann.
– F. A parte che Miyazaki, proprio recentemente, pare stia lavorando a un nuovo progetto, io credo che l’idea alla base dello Studio Ghibli morirà con la fine delle carriere del duo fondatore. Il Ghibli è qualcosa di intimamente connesso alla loro concezione di cinema e di vita e i risultati dei vari successori ne dimostrano lo statuto utopico. Solo Kondō ne avrebbe raccolto l’eredità, perché è un autore che è cresciuto con loro, ma chissà quali strade avrebbe intrapreso. Per me è giusto che sia così. La vivo come una meravigliosa parabola, come fosse un fiore prezioso che sboccia e poi conclude la sua esistenza dopo un momento di magnificenza.
– A. Miyazaki e Takahata continueranno a lavorare, a seguire progetti per il grande o piccolo schermo, a valorizzare le opere dello Studio Ghibli e più in generale l’animazione di qualità (pensiamo a La tartaruga rossa, alle retrospettive del Museo Ghibli, alle pellicole distribuite in Giappone grazie a Takahata e allo Studio). Ovviamente gli anni passano e prima o poi arriverà davvero il momento della parola fine, ma intanto possiamo aspettare il nuovo progetto di Miyazaki, possiamo provare a immaginare come sarà il parco ghibliano e possiamo sempre confidare nel lavoro di Suzuki, altro pilastro dello Studio.
Animazione tradizionale vs CGI: qual è il vostro pensiero?
– A. Il problema non è mai la tecnica, che casomai ha bisogno di tempo per essere affinata (la CGI sta ancora cercando di far quadrare il cerchio del fotorealismo e della resa estetica dei personaggi umani), ma la sua applicazione, le idee, il loro sviluppo. Ci sono molte possibili declinazioni dell’animazione in computer grafica, in primis quelle dei colossi nordamericani: Pixar, Disney, DreamWorks, Illumination, Blue Sky… tanti soldi, un numero impressionante di pixel, ma troppo spesso strutture narrative ed estetiche meccaniche, ripetitive fino e oltre la noia, sequel, prequel e spin-off privi di qualità e creatività. Ma questa è solo una faccia della medaglia: già guardando alla sola Pixar (Wall-e, Up, la trilogia di Toy Story e via discorrendo) il panorama si rasserena e spesso risplende. Ma penso anche a qualche Disney recente (su tutti, Ralph Spaccatutto), alle sperimentazioni tecniche di Zemeckis, al microscopico Azur e Asmar di Ocelot, ai titoli in CGI della Aardman, a 9 di Shane Acker, alla frenetica genialità di Lego Movie, a qualche tentativo nipponico, al fantasy francese Mune – Il guardiano della luna. Detto questo, al momento la distanza qualitativa tra la CGI e le tecniche tradizionali è abissale: idee narrative e grafiche, libertà e autorialità, sperimentazione, anche il semplice gusto della narrazione, sono da cercare nell’animazione tradizionale francese, nel magmatico universo degli anime, nella fiorente animazione sudcoreana, nella stop motion europea e nordamericana. Tutta la produzione della Illumination non vale dieci minuti di rotoscopio di The Case of Hana & Alice…
Quali sono secondo voi i possibili eredi dei due maestri? Esistono nomi promettenti nella nuova generazione di disegnatori?
– F. Sinceramente non saprei indicare eredi di Miyazaki e Takahata. Non credo che ce ne siano. Ma credo che ci sia una nuova generazione di autori in grado di emozionarci in maniera e forme diverse. Mamoru Hosoda è sicuramente uno di questi, Masaaki Yuasa, con i suoi limiti Makoto Shinkai. Lo sarebbe stato Satoshi Kon, un autore gigantesco di cui sento la mancanza ogni giorno.
Più in generale, guardando il documentario La casa dei sogni e della follia si percepisce un grande pessimismo nelle parole di Miyazaki e Suzuki rispetto alla coeva produzione nipponica, siete d’accordo con tale visione? Qual è il vostro punto di vista?
– A. A livello puramente tecnico-artistico, almeno per il momento, l’industria degli anime continua a galoppare: a parte i soliti Hosoda, Shinkai, Yonebayashi e Katabuchi, ci sono registi molto interessanti come Keiichi Hara e Naoko Yamada, quel geniaccio di Yuasa, e poi nomi storici come Ōtomo, Oshii, Rintarō e via discorrendo. Il materiale umano non manca. Discorso diverso e alquanto complesso, semmai, per le dinamiche produttive, per le condizioni contrattuali degli animatori, per l’afflato politico delle opere. Nel suo complesso, l’esperienza Ghibli (l’utopia Ghibli) è probabilmente irripetibile, rappresenta uno standard davvero troppo elevato. Più che ottimisti o pessimisti, meglio essere realisti e guardare ai lati positivi, alle potenzialità (penso allo straripante successo di Shinkai).
Parlando di Takahata, è giustamente evidenziata la scarsa attenzione che per lungo tempo e ancor oggi il pubblico, la critica e gli accademici gli hanno dedicato. Ci sono altri maestri dell’animazione e del cinema giapponese a cui è toccato un simile destino e di cui credete sia necessario un maggior lavoro di approfondimento?
– A. Su Takahata c’è il validissimo tomo di Mario Rumor, che ha scritto anche sulla Tōei e, fresco di stampa, su Osamu Dezaki, altro nome capitale della storia degli anime. Chiaramente servirebbero più libri, più attenzione critica, dei corsi universitari, delle rassegne mirate, spazi festivalieri. Servirebbe la collana che sogna Andrea.