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Mowgli – Il Figlio della Giungla | La recensione del film di Andy Serkis

Andy Serkis porta su Netflix il suo adattamento più maturo e meno spensierato del noto romanzo di Rudyard Kipling, affidandosi a un cast di voci stellare ma inciampando in una motion-capture non all'altezza

“I tuoi scienziati erano così preoccupati a capire se potessero o meno farlo che non si sono fermati a pensare se dovevano“. Le parole pronunciate da Ian Malcolm in Jurassic Park non sono mai state così vere come con l’ultima fatica da regista di Andy Serkis (Ogni tuo respiro). Mowgli – Il Figlio della Giungla (Mowgli: Legend of the Jungle), adattamento in motion-capture del celebre Il libro della Giungla di Rudyard Kipling, arriva ora direttamente su Netflix (inizialmente se ne doveva occupare la Warner Bros.) con un certo ritardo e sospinto da finto entusiasmo. Soprattutto perché, nel non lontano 2016, la Disney ha già portato con successo nei cinema la sua rielaborazione del romanzo diretta da Jon Favreau.

L’adattamento ad opera di Andy Serkis è stato comunque venduto dal marketing come una versione più cupa e adulta della storia, senza dimenticare la volontà di mettere in mostra i grandi balzi in avanti della CGI (il budget è di 100 milioni di dollari). Tuttavia, i due supposti punti di forza del film sono anche quelli che danno più problemi.

Mowgli (Rohan Chand), ragazzino indiano rimasto orfano, viene allevato dai lupi nella giungla. Soprannominato “cucciolo di uomo”, viene così addestrato da un orso, Baloo (doppiato in originale da Andy Serkis) e una pantera, Bagheera (Christian Bale), per diventare un lupo e rimanere nel branco. Tuttavia, Mowgli è un ragazzo umano. Oltre a comunicare con loro, fa quello che può, correndo anche a quattro zampe, ma non può stare al passo degli altri cuccioli. Questa sua incapacità mette presto Mowgli in pericolo, perché la perfida tigre Shere Khan (Benedict Cumberbatch) è in agguato e bramosa di sbranarlo, anche se sua madre, Nisha (Naomie Harris) e il capobranco Akela (Peter Mullan), sperano di riuscire a proteggerlo.

Classificato PG-13, Mowgli – Il Figlio della Giungla non deve essere confuso con un prodotto adatto ai più piccoli sullo stile del cartone animato classico (scordatevi le canzoncine allegre qui); dalla morte dei genitori di Mowgli alla sete di sangue di Shere Khan, il regista si spinge pesantemente negli anfratti più scuri della giungla e dell’animo umano. In effetti, nel corso dei 104 minuti di durata il piccolo protagonista si ricopre di ferite e lividi quasi fosse l’eroe di un action movie. Addirittura, assistiamo a una scena piuttosto forte in cui l’enorme tigre gioca con il corpo del ragazzo privo di conoscenza, lasciandogli sulla spalla un vistoso e doloroso ricordo dell’incontro.

La sceneggiatrice esordiente Callie Kloves imbastisce tuttavia il film con una storia dal tono dissonante che prova vagamente a scavare nella dicotomia ‘vita sociale tra i propri simili vs. vita selvaggia’ (o ‘natura vs. educazione’). In questa iterazione, viene inserito infatti il personaggio di un cacciatore britannico di nome Lockwood (Matthew Rhys). Capace ugualmente di atti di estrema gentilezza e crudeltà, l’uomo racchiude in sé sia il concetto più profondo di essere umano che di colonialismo. Ma se la superficiale immersione nel secondo aspetto è comprensibile e apprezzabile, lo fa a spese dei personaggi indiani, ai cui viene conferita la medesima profondità degli alberi che lambiscono la giungla, con Freida Pinto, in particolare, che rimane incredibilmente sotto-impiegata.

Questi rivoli di oscurità si stagliano spesso in netto contrasto con i momenti spensierati di Mowgli – Il figlio della giungla. Rohan Chand è al centro delle scene migliori proprio quando è libero dalla sceneggiatura soverchiante di Callie Kloves e Andy Serkis. Sfortunatamente, con la stessa rapidità con cui arrivano le suddette scene sanguinose, si innesta l’incontro col temibile pitone tentatore Kaa (Cate Blanchett), che profetizza che il ragazzo porterà l’equilibrio tra l’uomo e la giungla manco fosse Anakin Skywalker. Questi repentini cambi di passo e atmosfere rendono le emozioni più esuberanti troppo accentuate e inappropriate.

In ogni caso, i momenti più gioiosi e spensierati non sarebbero più di tanto fuori luogo, se solo la luce non fosse così bassa. Le scelte fotografiche di Michael Seresin hanno naturalmente a che fare con la CGI. Più l’illuminazione è realistica, meglio è, soprattutto quando la riuscita di un film dipende dal rendering di fogliame e pellicce (entrambi elementi notoriamente difficili da rendere ‘veri’ digitalmente). Il rendering attraverso un’illuminazione scura piuttosto che una luminosità sovraesposta e non realistica, aiuta.

Fate un confronto tra la scena con lo scorpione, girata in piena “luce solare”, con qualsiasi sequenza notturna; la qualità della computer graphic impiegata è notevole. Quindi, anche se Andy Serkis ha scelto di virare verso un’esposizione più buia per adattarla alla cupezza della vicenda, tale mossa è stata fatta anche per mere ragioni pratiche. Questa praticità separa scene di presagio e di gioia più di quanto non succederebbe normalmente.

Tuttavia, non sono tanto questi trucchi del mestiere a far storcere il naso circa gli animali, quanto piuttosto il loro design. Il disgraziato Bhoot (Louis Ashbourne Serkis), cucciolo di lupo albino e spelacchiato, sembra – visivamente – provenire letteralmente da un altro set. Le caratteristiche esagerate del personaggio, dai suoi occhi, alla sua camminata e al suo sorriso, sono in ampio contrasto con le rappresentazioni naturalistiche che il film dà di altri animali. Eppure, anche le creature apparentemente più verosimili risultano più da cartone animato che vicine alla realtà.

Una bizzarra sensazione assale lo spettatore guardando Mowgli – Il Figlio della Giungla, che queste bestie siano allo stesso tempo troppo reali, ma non abbastanza reali. La sospensione dell’incredulità non riesce mai a penetrare nella mente, in parte a causa delle voci recitanti. Ogni attore coinvolto pronuncia le sue battute fin troppo bene. Infonde emozioni alle parole più di quanto l’animazione delle espressioni facciali possa tenerne il passo (a questo proposito, è caldamente consigliato l’ascolto in lingua inglese).

In definitiva, Andy Serkis si è preso tutto il tempo necessario per realizzare Mowgli – Il Figlio della Giungla, è vero, ma la sua convinzione di poter spingersi oltre i limiti di questa semplice storia gli ha impedito di capire se in primo luogo avrebbe potuto riuscirci coi mezzi tecnici a disposizione. Proprio come le sue creazioni in CGI, il film non riesce a trovare un’equilibrio tra la realtà della giungla e la fantasia, finendo per essere null’altro che un prodotto discreto e diverso dai precedenti, ma non esattamente ficcante emozionalmente o contenutisticamente.

Di seguito il full trailer italiano di Mowgli – Il Figlio della Giungla, nel catalogo di Netflix dal 7 dicembre:

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