Nel 1983 lo scultoreo Lou Ferrigno era il protagonista del neo-peplum di cartapesta prodotto dalla Cannon, un'opera artigianale e raffazzonata che cercava di cavalcare i successi di Conan e Guerre Stellari
Noto sul mercato internazionale per i suoi film d’imitazione galattica firmati Lewis Coates (Scontri stellari oltre la terza dimensione, Contamination) il regista Luigi Cozzi nel gennaio del 1984 tornava nei cinema italiani rilanciando in una macedonia di tendenze e scopiazzature il cinema degli uomini forti e dei Maciste di cartapesta, mischiando la fantascienza mitologica degli anni precedenti con l’araldica spaziale della nascente ‘epoca elettronica’ e degli effetti speciali computerizzati.
Nel suo Hercules – delle cui musiche si occupò Pino Donaggio – fa capolino qua e là, in una pretenziosa e didascalica sceneggiatura scritta con dialoghi ai confini del delirante dallo stesso Cozzi, il mito del super-eroe alla Conan (il primo adattamento per il grande schermo firmato da John Milius era uscito appena l’anno prima) e non a caso per il suo Ercole culturista – sotto l’egida della mai troppo lodata Cannon Group – il regista scritturava il possente Lou Ferrigno, nato all’ombra di Arnold Schwarzenegger, anche lui vincitore del titolo di Mister Universo e popolarissimo tra la platea dei giovanissimi per aver interpretato in TV il verde personaggio dell’Incredibile Hulk.
Luigi Cozzi, uno che di fantastico se ne intendeva, si fa prendere la mano dalla nostalgia per quel cinema dei ‘sandaloni’ di Pietro Francisci e Riccardo Freda, gonfiato ed espanso, fatto di muscoli pettorali, dove l’antichità profumava di plastica e le mura erano di polistirolo, peraltro infilando spezzoni di repertorio messi lì a mo’ di citazione tra una sfida di gladiatori e un volo spaziale e regalando una raffinata comparsata a favore di fan del genere proprio all’ex Ercole Brad Harris.
Tutto il resto, però, non va più in là del mero tentativo: i sibili galattici, i modellini, i mostri robotico-mitologici, il bestiario fantastico alla Ray Harryhausen, le sovraimpressioni ardite che il pur bravo mestierante Armando Valcauda (Giochi erotici nella terza galassia), senza mezzi rambaldeschi, mette in piedi. Effetti speciali teneri ma già stravisti persino al tempo.
Hercules, nelle intenzioni, doveva essere l’avvenimento popolar-cinematografico dell’anno, la conferma che l’antico genere peplum covava ancora sotto la cenere pronto a riaccendersi e a fare polpette dei comici dialettali e degli Interceptor nostrani e, invece, usciva alla chetichella sbeffeggiato da un pubblico striminzito e sufficientemente smaliziato, che mandava all’aria i piani del reparto marketing, che nei mesi precedenti aveva strombazzato per settimane sui quotidiani l’evento.
Una strategia che pagò invece negli Stati Uniti, dove incassò tre milioni di dollari in quattro settimane di programmazione, e si garantì così un sequel, Le avventure dell’incredibile Ercole, sempre interpretato da Lou Ferrigno e scritto e diretto da Cozzi, distribuito nel 1985, che ricevette recensioni – se possibile – anche peggiori. Non il macigno tombale sulla ‘rinascita’ (ci avrebbero provato ancora Ruggero Deodato e Enzo G. Castellari), ma almeno una seria ipoteca.
Di seguito una scena di Hercules: