Savannah Liles è una giovane paziente con abilità straordinarie nel thriller che introduce un nuovo e più introspettivo sguardo sui superpoteri e su chi li possiede
Molte sono le prospettive con cui può essere affrontato il tema supereroistico, o quantomeno il discorso della delicata convivenza tra individui dotati di superpoteri e uomini normali. Già in X-Men la coesistenza dei mutanti con tutti gli altri esseri umani era una problematica centrale, con tanto di emarginazione, esperimenti su coloro che erano diversi e comprensibili reazioni di questi ultimi. Il tutto, però, nelle pagine del fumetto come nei capitoli dei cinecomic, era inserito in un vortice d’azione e di pirotecnici effetti speciali. Eppure ci sono approcci diversi, più intimistici, come la declinazione decisamente indie che ne danno Alex Haughey e Brian Vidal in Prodigy. Il duo, che oltre ad aver diretto il thriller con derive paranormali ne ha anche steso la sceneggiatura, mostra infatti il duplice volto di un soggetto che ha facoltà straordinarie, quello umano e quello terrificante, e soprattutto sceglie per mettere in scena tale dicotomia quella che sembra un’innocua ragazzina dai capelli rossi.
Se quindi affine è al nucleo centrale di X-Men la riflessione sul diverso, sulla paura che può suscitare ciò che non è controllabile e percepito perciò come minaccia, assai differente è il modo con cui viene sviluppata. Film dal budget palesemente inferiore alla serie di blockbuster tratti dalle strisce Marvel, Prodigy evita del tutto la spettacolarità e, a parte qualche limitata parentesi, limita al minimo gli effetti speciali, che sono comunque strettamente funzionali alla narrazione. Lo scenario è perciò minimale, tutto è collocato in un paio di grigie e vuote stanze di un anonimo edificio governativo (che perfettamente rispecchia l’immaginario collettivo a riguardo). Il luogo trasmette subito però un senso di angoscia e di claustrofobia; non stupisce la rabbia covata dalla prigioniera, il suo distacco verso gli altri, che perlopiù sono in ultimo degli ostili carcerieri ai suoi occhi. L’azione è altrettanto ridotta, a parte pochi apici posti nei giusti momenti di pathos, l’intero sviluppo potrebbe essere descritto come un lungo e teso scambio di battute, inframezzato da limitati intervalli di frenesia a cui si arriva in un crescendo preparato sempre dalle parole. Di tanto in tanto, un’improvvisa esplosione rompe il ritmo dato solamente dal dialogo serrato, e in tal caso vengono realizzati discreti effetti speciali, limitati però a movimenti di oggetti – ma non solo – più o meno violenti. Chi è alla ricerca di un film dalla CGI o dai combattimenti scenografici e sorprendenti rimarrà certo deluso dal minimalismo che invece qui vige. Similmente non vi sono particolari colpi di scena, lo sviluppo è lineare e può portare, inevitabilmente, solo a due possibili epiloghi, antitetici tra loro.
Decisamente affascinante per il suo fosco intimismo, Prodigy fornisce quindi un punto di vista inedito e più intellettualistico al superomistico, accostandosi così a pellicole come Morgan di Luke Scott o come l’ottimo Ex Machina di Alex Garland (seppur con le debite differenze), non eguagliando purtroppo però quest’ultimo nel finale, che nel film di Alex Haughey e Brian Vidal è un po’ troppo semplicistico viste le argute premesse.
Di seguito trovate il trailer ufficiale: