Poco originale e ancor meno sanguinoso, questo slasher mancato non fa altro che finire per annoiare lo spettatore
La tecnologia cela dietro un’apparenza del tutto innocua terribili pericoli, e tale lezione sembra ribadire alquanto maldestramente per l’ennesima volta Recovery (in italiano tradotto con il peculiare titolo Ritrovamento) di Darrell Wheat.
Già nel 2011 la britannica Black Mirror, serie visionaria creata da Charlie Brooker (QUI tutto ciò che dovete sapere della stagione 3), ci aveva mostrato alcuni degli aspetti più oscuri della futura società ipertecnologica, diverse pellicole negli ultimi anni hanno incentrato il lato orrorifico su minacce molto più vicine e comuni. Se in Friend Request a Unfriended Facebook era il tramite per malefiche e vendicative forze demoniache, Recovery ci mostra che è uno strumento altrettanto valido per qualsiasi psicopatico che miri a spiare un’ignara donzella tra le molte che, peccando di esibizionismo, sono solite postare immagini discinte di sé ad ogni ora del dì.
Un po’ come i giovani svaligiatori di Man in the Dark (Don’t Breathe) di Fede Alvarez, anche qui tre – ancor più sprovveduti – home invaders si imbattono in qualcosa di molto più funesto di quanto avessero previsto. Figli di una lunga tradizione di famiglie disfunzionali e composte da psicopatici assassini e torturatori, il cui esempio maximo è forse il geniale La casa dei mille corpi (House of 1000 Corpses) di Rob Zombie, i villain di Recovery hanno mire differenti per le loro selezionatissime prigioniere: in una declinazione perversa di un’agenzia matrimoniale selezionano la futura ospite della loro magione, che difficilmente potrà poi lasciarla, come peraltro ci viene mostrato sin dalla sequenza di apertura con una sfortunata bachelorette. Anzitutto deludente perché la somma di cliché di genere, la stirpe di folli e l’ambientazione angosciosa e claustrofobica in interni – perfetta per un film che non può ricorrere a un alto budget (si pensi al primo capitolo di La notte del Giudizio di James DeMonaco) – non sono gli unici elementi poco innovativi. Per nostra sfortuna, anche quando la situazione diviene più densa di pericolo, ossia dopo l’introduzione furtiva, lo sviluppo è il farraginoso ensamble di spezzoni già visti che mirano a far sobbalzare lo spettatore e che invece tendenzialmente lo annoiano. I personaggi continuano ad aggirarsi furtivi per le stanze che riservano agghiaccianti sorprese, nella sperimentata pratica dell’errabondare per labirintici ambienti e corridoi inseguiti da una qualche minaccia, umana o sovrannaturale che sia (praticamente qualsiasi slasher si basa su tale schema erratico nel cercare di evocare un senso di angoscia); a ciò si aggiungono alcuni espedienti piuttosto ritriti, tra cui quello del ricorrere a schermi di sorveglianza per farci intravedere le diverse vittime, come già visto in molteplici casi dalla scena di chiusura del primo Resident Evil di Paul W. S. Anderson dove intravediamo la sagoma di zombie catturata di sfuggita su un monitor fino al recente The Hoarder di Matt Winn in cui quest’ultimo è lo strumento per rivelare le stanze dei prigionieri del magazzino. A ciò si uniscono le solite videocassette pseudo snuff, con immagini sconvolgenti che però non ci vengono praticamente mostrate e ragazze semicoscienti incatenate in giro per le stanze, fatto peraltro poco coerente con la ricerca, benché perversa, di una consorte inizialmente vagheggiataci.