Nel 2004, il regista, attore e sceneggiatore portava sugli schermi una commedia d'azione capace di sbancare anche in Occidente fondendo la tradizione del wuxia con le tecniche in CGI di Hollywood
Con Kung Fusion (Kung Fu Hustle), il mito di Stephen Chow raggiungeva la massa critica – non soltanto per il seguito di culto duraturo che era riuscito a crearsi, per i fenomenali incassi al botteghino (specialmente cinese) generati dai suoi film o persino per il piacere collettivo che il suo pubblico provava a ogni nuovo titolo. Tali meraviglie, oggi quanto 15 anni fa, erano già ‘di routine’. Uscito in un momento storico in cui Hong Kong era impantanata in una particolarissima situazione economica e politica minacciosamente simboleggiata dal declino costante della sua industria cinematografica, questo lungometraggio del 2004 diede alla gente un motivo per continuare a sperare.
Si immerge nei film cantonesi a basso budget degli anni Cinquanta e Sessanta, trovando un equilibrio tra cinismo necessario e nostalgia sentimentale, mungendoli subito al fine di suscitare risate nel pubblico e mettendoli alla prova per creare un mondo di ricca complessità umana sotto la sua ingannevole superficie cartoonesca (e un doppiaggio italiano ai limiti dell’insulto). La sua fonte di ispirazione principale è la saga in 5 parti di Buddha’s Palm cominciata nel 1964, che raggiunse lo status di cult nel corso degli anni Settanta quando fu scoperta a tarda notte dai telespettatori, che iniziarono a crogiolarsi nei suoi eccessi melodrammatici, negli effetti speciali kitsch e nella spiritualità raffazzonata.
Il fascino esercitato da Buddha’s Palm su Stephen Chow è facilmente ravvisabile. Il suo eroe, Sing (che lui stesso interpreta), è un artista marziale senza talento preso di mira da tutti, dal suo Sifu fino alla ragazza che ama, passando per il tizio che lei sposa, fino a quando non riesce a padroneggiare casualmente la tecnica una poderosa tecnica di combattimento diventando il numero uno supremo del mondo delle arti marziali. Il regista e attore ha costruito la sua carriera interpretando ruoli da perdente, figure in stile Charlie Chaplin che si elevano al di sopra della loro misera esistenza contro ogni pronostico.
Non intimidito dalle costanti umiliazioni causate da persone di livello sociale superiore, il protagonista non manca mai di avere l’ultima intelligente risata, il più delle volte grazie alla sua agile lingua. Tale umorismo verbale implica l’esercizio di un atteggiamento noto come mo lei tau, espressioni tipiche dello slapstick che esprimono irriverenza attraverso commenti ironici pepati e insensati, spesso adottati dagli sconfitti come posizione ‘salvifica’ per rivendicare la loro vittoria morale sull’altro. Popolare sin dalla fine degli anni Ottanta, quando l’atmosfera a Hong Kong cominciava a farsi cinerea e funesta per l’imminente riunificazione con la madre patria Cina (avvenuta nel 1997), questo modo di fare è comunque sopravvissuto nei successivi anni di crisi economica e frustrazione politica. E Kung Fusion è riuscito a incarnare così efficacemente gli stilemi del mo lay tau da diventarne praticamente il sinonimo.
Molta della fortuna di Stephen Chow arriva anche dalla sua abilità nel miscelare generi diversi. In Kung Fusion, sposa ad esempio i suoi riferimenti classici al wuxia con i film ‘dei caseggiati’ (sottogenere popolare in Cina), in particolare il classico del teatro del Guangdong del 1963 72 Tenants del 1963 (arrivato al cinema nel 1973 per la regia di Chor Yuen), una storia alla Frank Capra sui poveri che vivono negli affollati bassifondi delle città. Stephen Chow ambienta questo film negli anni ’30 in una baraccopoli di Shanghai, facendo risalire la storia alle sue origini teatrali. In questo modo, non solo riporta gli spettatori di Hong Kong ai loro giorni di difficoltà, ma estende anche un invito al suo nuovo pubblico in Cina, dove aveva ottenuto grande successo capolavoro in due parti A Chinese Odyssey (1995), che lo vedeva protagonista davanti alla mdp.
Tuttavia, la semplice conquista della Cina non era abbastanza. Questa volta, con propositi di aver un impatto globale ancora più ampio rispetto al già incoraggiante Shaolin Soccer del 2001, Stephen Chow collabora con la Columbia Pictures per la distribuzione. Alla ricerca di un fascino più universale, sceglie quindi di attenua il suo umorismo verbale brevettato ed enfatizza il suo collaudato alter ego del perdente. E, grazie alle tasche profonde dello studio hollywoodiano, riesce ad aggiornare al meglio il mito della wuxia, farcendo Kung Fusione di scena scene di combattimento che adottano il tipo di effetti in CGI usati in Matrix e in altri film di fantascienza americani, che a loro volta – però – si erano appropriati delle coreografie del kung-fu. In altre parole, ha capito che per far breccia nel mercato occidentale sarebbe stato necessario spacciare come qualcosa di fresco e ‘potabile’ un’arte antica che conosceva come le sue tasche. Astuto il ragazzo.
Di seguito la divertente scena del lancio del coltello da Kung Fusion: