Nel 2002, Edward Norton e Philip Seymour Hoffman erano i protagonisti di un caustico pamphlet dai toni vibranti
Ogni giorno vedo la mia agenda nera, quella su cui annoto gli appuntamenti di lavoro, consumarsi stancamente pagina dopo pagina. Un’inesorabile e costante stillicidio temporale, che mi sta guidando verso la fine di questo sfacciato 2020. Appunti, incontri, telefonate e vita privata, sono incastrati in un’impalcatura temporale tanto perfetta, quanto fragile. Basta una minuscola variazione di un solo minuto, perché tutto il castello crolli e con lui, la sensazione di poter governare qualcosa che fondamentalmente non esiste. Avere una 25° ora a disposizione, al termine della giornata più lunga della propria vita, potrebbe radicalmente cambiarne l’esito o aggiungersi al monte di occasioni sprecate su cui sediamo.
L’intero film può essere definito, infatti, come un caustico pamphlet dai toni vibranti, su di un paese costretto a guardare in uno specchio le proprie mancanze. Una presa di coscienza al limite dell’isterico, per una società tutta apparenza, che crede di poter risolvere ogni grana con un colpo di pistola o, più semplicemente, annegandola sul fondo di un bicchiere di whisky.
Nel costruire il solido impianto narrativo di La 25ª ora, Spike Lee non si dimostra particolarmente indulgente nei confronti dei suoi personaggi, rendendoli a loro modo disperati e disprezzabili. Lee non fa sconti di pena e sulle rive di un Hudson travestito da Acheronte per l’occasione, ci mostra un ‘Caronte per tossici’, tanto magnanimo nel salvare la vita di un cane, quanto privo di empatia nel guadagnare sulla scimmia degli altri. Allo stesso modo, i due migliori amici di Monty, Francis Slattery (un Barry Pepper in stato di grazia) e Jacob Elinsky (Philip Seymour Hoffman), rappresentano nient’altro che due facce della stessa ipocrisia Made in USA. Il primo, arrogante pezzo di Yuppie, sintetizza il volgare cinismo di un machismo corroso da una rabbiosa fragilità, che nei minuti finali travolge ogni cosa senza controllo.
Il secondo, goffo professore di lettere, trasuda un’insopportabile perbenismo nel camuffare i suoi poco etici pruriti, nei confronti di una giovane studentessa (una disturbante Anna Paquin). Tuttavia, al netto di ritratti poco generosi, l’amicizia fra i tre risulta genuina e fra tutti, è proprio Slattery il prescelto da Brogan per compiere quel giudaico tradimento, che permetterà all’uomo di sopravvivere ai primi giorni di detenzione. Un sacrificio, quello di Slattery, arrivato al termine di una notte infinita in un Purgatorio al neon, dal quale, i tre, riemergono emotivamente denudati.
Una trama apparentemente semplice permette a Spike Lee di mantenere in La 25ª ora la granulosità tipica della sua regia e di adottare scelte stilistiche uniche. L’elemento temporale, questa volta, gioca un ruolo centrale all’interno dell’intera vicenda, con il regista che fa fluttuare i personaggi in una sorta di sospensione costante. Brogan cerca con disperata urgenza, un modo per dilatare all’infinito le sue ultime ventiquattr’ore di libertà, per ricomporre i cocci di una vita sprecata e riprendere il controllo sul suo futuro. E, offerta dal padre James (Brian Cox), arriva la possibilità di rendere eterno quel giorno, con una venticinquesima ora, oltre il destino che attende il protagonista.
Per dipingere la New York post 11 Settembre di La 25ª ora, Spike Lee pesca a piene mani dalla tradizione metropolitana americana. Le strade percorse da Edward Norton, infatti, non sono poi così dissimili da quelle descritte in Mean Streets o Un uomo da marciapiede. Ed è proprio dal film di John Schlesinger del 1969 che Lee recupera non solo una palette di colori resa ancora più ruvida e graffiata, ma anche alcuni elementi del finale on the road, fra discorsi sul futuro e teste appoggiate al finestrino.
Sebbene con La 25ª ora Spike Lee abbia firmato uno dei suoi lavori più validi (se non il migliore), la pellicola non è tuttavia priva di problemi. La caratterizzazione di Naturelle (Rosario Dawson), la compagna di Brogan, è quantomeno superficiale e anche il suo ruolo sembra essere marginale per larga parte del film. Non solo. Alcune lungaggini verbali rendono eccessivamente lenta e prolissa la parte centrale. Nonostante questo, ci troviamo ugualmente dinnanzi a un’opera dalla decadente luminosità, che ha avuto il coraggio di mostrare con Ground Zero le ferite, le paure e lo smarrimento della più grande città del mondo.
Di seguito una scena di La 25ª ora: