Nonostante la buona prova di Jon Bernthal in un ruolo più impegnato, il regista realizza un thriller troppo ambizioso, che non riesce del tutto ad avvicinarsi ai modelli a cui guarda
Come sospeso in un troppo dilatato divenire, Sweet Virginia di Jamie M. Dagg rielabora in chiave calcatamente intellettuale, quasi esistenzialista, alcuni dei cliché del noir, eliminando però così la suspense e confezionando qualcosa di smaccatamente indie.
Elemento narrativo che tuttavia nel complesso ha rilevanza solo marginale, è utilizzato solo per approdare ad altri, più sentimentali lidi, in cui la costruzione della tensione non è per nulla una priorità, anzi, ove è privilegiato senza dubbio il lato drammatico. Il sicario, Elwood (Christopher Abbott), diviene infatti uno dei due poli antitetici di un racconto denso di palpabile costernazione e amarezza, a cui si contrappone Sam (Jon Bernthal), uomo onesto e dedito al lavoro che incontra per volere del destino nel motel da questi gestito, il Sweet Virginia che conferisce il nome al film, e con cui per un motivo non del tutto chiaro si stabilisce un qualche legame.
A dare un ulteriore nota di pathos e di fatalità si aggiunge inoltre la morte del marito dell’amante di Sam, Bernadette (Rosemarie DeWitt), d’improvviso resa vedova dacché il killer a pagamento decide di eliminare anche un paio di vittime a caso, giusto per per sviare i sospetti e confondere le acque.
Ibrido lacunoso, i fratelli Paul e Benjamin China (Crawl), che hanno scritto la sceneggiatura, sembrano non essere capaci di portare a un degno compimento il machiavellico insieme, che dà invece la sensazione di essere solo abbozzato, senza l’opportuna rifinitura dei dettagli di cui il copione è disseminato. L’obiettivo, palese, è di conseguire quella percezione di non-finito, di inquietante e melanconica sospensione che comunichi allo spettatore il vuoto delle squallide esistenze dei personaggi, aspetto che viene ribadito dalle battute scarne.
La raffigurazione della ordinaria vita di provincia, che sotto la superficie cela un’anima nera, non è però tradotta con quel cinico piglio ironico alla Coen di Fargo, né si riesce a tessere quel drammatico groviglio, quel senso di fatale e incomprensibile tragedia che lega mille disperati individui, alla 21 grammi di Alejandro González Iñárritu. Ne nasce invece un thriller in parte monco, con inserti superflui e immotivati, come il reiterato mostrare scene di rodeo in slow motion poiché Sam era un ex campione, ma per riuscire a comunicare davvero l’horror vacui che dovrebbe annichilire il pubblico, manca qualcosa ai dialoghi, alle azioni, ai personaggi stessi, forse quella costernazione e quella profondità che sono estremamente difficile da rendere, soprattutto in un minimalismo ricercato come quello che vige in Sweet Virginia e che necessitano di ben superiori risorse …
A ciò si somma una buona performance soprattutto di uno degli interpreti principali, Jon Bernthal, che dimostra di essere capace di passare tranquillamente da un ruolo action, quello del giustiziere inarrestabile di Il Punitore (The Punisher), ad uno decisamente più drammatico. Un po’ meno entusiasmante è la recitazione di Abbott, che risulta fin troppo costruito e innaturale nella parlata, come nella mimica, volendo dare l’idea di un folle e spietato assassino, in una caratterizzazione manierista alla Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men), ma che non riesce nel tentativo, d’altra parte niente affatto semplice, e in più frangenti risulta più che altro inopportunamente calcata e quasi grottesca.
Tentativo dunque non proprio esaltante, ma nemmeno completamente biasimevole, di connotare il convenzionale thriller con tratti più cerebrali, Jamie M. Dagg conferma l’approccio impegnato già palesato nel precedente e suo primo lungometraggio River (2015), non riuscendo però in Sweet Virginia a dare la giusta sostanza a tale ostico intellettualismo e confezionando invece un pastiche, con alcuni buoni spunti, ma ancora molto labor limae da compiere.
Di seguito il trailer internazionale: