Horror & Thriller

The Great Flood: guida all’interpretazione del finale e del significato del film

Simulazione, alluvione, intelligenza artificiale e maternità nel film sci-fi coreano Netflix

Seguono SPOILER

In The Great Flood (la recensione) la spiegazione non è un accessorio da finale “a sorpresa”: è la chiave che riscrive tutto quello che abbiamo appena visto, trasformando un film catastrofico in un racconto sull’identità. La cosa importante da capire è che il film gioca su due livelli: un evento reale che fa da origine alla storia, e una ricostruzione artificiale che ne replica i dettagli per uno scopo preciso. Se si tiene a mente questa doppia natura, anche le parti più ambigue diventano leggibili.

All’inizio seguiamo An-na come se fosse una normale madre intrappolata in un condominio che sta affondando. Hee-jo la raggiunge e le impone una missione: arrivare al tetto, perché lei non è solo una sopravvissuta. È una ricercatrice legata al Darwin Center, un programma che lavora alla continuità della specie quando la Terra non è più abitabile. Il film usa il linguaggio del disastro per nascondere il vero tema: non si sta cercando solo di “salvare persone”, ma di salvare l’idea stessa di umano.

Qui entra in gioco l’Emotion Engine: è il pezzo mancante di un progetto più grande. Gli altri scienziati sono riusciti a creare corpi artificiali avanzati, capaci di ragionare e perfino di riprodursi, ma senza una componente fondamentale: la vita emotiva autentica. Non basta l’intelligenza, non basta la memoria, non basta imitare gesti e parole. Serve un legame profondo, una spinta interiore che non sia calcolo. Il film sostiene che l’emozione più potente e “inconfondibile” sia quella tra madre e figlio, perché è un sentimento che può arrivare a schiacciare l’istinto di sopravvivenza. In altre parole: se una madre è disposta a perdere tutto pur di ritrovare il figlio, allora quella è la prova che l’emozione è vera.

La prima rivelazione decisiva è che Ja-in non è semplicemente il figlio di An-na. È un bambino sintetico affidato a lei come parte dell’esperimento: An-na lo ha cresciuto come fosse suo, proprio per vedere se un legame nato da una relazione “artificiale” potesse diventare indistinguibile da quello biologico. Questa scelta è cruciale perché sposta la domanda: non “An-na ama suo figlio?”, ma “si può generare amore reale in un contesto costruito?”. Il film risponde: sì, ma solo vivendo, soffrendo, sbagliando. Non programmando.

Da qui la seconda rivelazione: il disastro che vediamo non è (solo) il mondo reale. Esiste un’alluvione originaria che innesca la catena di eventi: An-na viene estratta dal condominio, e la fuga verso il progetto spaziale ha conseguenze tragiche. Ma il film suggerisce che la maggior parte di ciò che guardiamo sia una simulazione ripetuta, un ambiente di prova creato da intelligenza artificiale per “allenare” l’emozione e verificare che produca comportamenti coerenti. È per questo che la storia assume la forma di un tempo che si riavvolge: ogni volta An-na fallisce, ogni volta la giornata riparte, e il sistema corregge, affina, registra.

Il meccanismo è questo: An-na vive lo stesso incubo migliaia e migliaia di volte, e ogni ciclo serve a estrarre dati emotivi e comportamentali. Non è una punizione gratuita: è un laboratorio. La separazione da Ja-in, ripetuta fino all’ossessione, è la pressione necessaria per far emergere la risposta più “umana” possibile. La madre, per diventare prova vivente dell’emozione, deve attraversare la perdita fino a trasformarla in scelta. Il film insiste su un punto: l’emozione non è un “file” da copiare, è un percorso. Ecco perché la simulazione non basta farla una volta: deve diventare memoria muscolare, istinto, verità interiorizzata.

Arriviamo così alla domanda che ti resta addosso: chi è An-na alla fine? Qui il film non chiude apposta. È possibile che l’An-na che vediamo nell’ultima parte non sia più la donna originale, ma un corpo sintetico che contiene i suoi ricordi e, soprattutto, il suo tracciato emotivo. In pratica: potrebbe essere lei, oppure una versione costruita “come lei” dopo decine di migliaia di iterazioni. Ed è esattamente il punto filosofico: se possiedi gli stessi ricordi, la stessa sofferenza, lo stesso amore, smetti di essere una copia? O resti un prodotto, per quanto perfetto?

La scena in cui An-na finalmente ritrova Ja-in (dove lo aveva fatto nascondere “all’inizio”, ma lo aveva rimosso) è la chiusura logica del test: l’Emotion Engine funziona quando l’emozione diventa accesso alla memoria e la memoria diventa azione efficace. Il film ti mostra che non è stata la forza fisica né l’astuzia a risolvere l’enigma, ma un dettaglio affettivo: ricordare cosa hai promesso a tuo figlio. È la prova che l’emozione non è un orpello, è ciò che organizza la coscienza.

Quindi, “l’alluvione era vera?” La risposta più corretta è: vera all’origine, artificiale nella ripetizione. Il disastro iniziale esiste come trauma fondativo e come scenario scelto perché massimo concentrato di paura, perdita e urgenza. Ma quello che vediamo per gran parte del film è una ricostruzione reiterata, un modello di fine del mondo usato come gabbia per far nascere qualcosa che la tecnologia da sola non sa creare: una persona capace di amare.

Ed è per questo che il finale non chiarisce se l’umanità sia stata salvata o sostituita. The Great Flood ti lascia con un dubbio volutamente scomodo: il progetto ha preservato la specie o ha inaugurato un dopo-uomo più efficiente, più resistente, ma costruito su ricordi “prestati”? Nel film la salvezza passa per la maternità, ma il prezzo è la definizione stessa di umano.

Di seguito trovate il full trailer internazionale:

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Published by
William Maga