Dai cartelli messicani al 'Patrón' Pablo Escobar, Hollywood negli ultimi anni sembra aver (ri)scoperto prepotentemente il filone legato al narcotraffico centro-sudamericano. Questo speciale intende esaminare le produzioni cinematografiche e televisive che negli ultimi anni hanno affrontato l'argomento. Tenetevi forte.
OLTRE IL CONFINE
Vicino di casa per Hollywood, il cinema Sud Americano, in particolare Messicano, si è ritagliato la propria importanza nel panorama mondiale, sicuramente vivendo una seconda, importante epoca d’oro ai nostri giorni. Merito dei vari Guillermo Del Toro, Alfonso Cuaron, Alejandro Gonzales Innaritu (partners produttivi in un progetto che ha dato i suoi frutti) ma anche Robert Rodriguez, i quali hanno portato il mondo latino in una posizione decisionale, come ci insegnano le cronache. Così, mentre Donald Trump spinge la sua candidatura promuovendo un muro, vero, non metaforico, tra Stati Uniti e Messico, il Sud America comincia a prendere un posto sempre più centrale nelle principali vetrine cinematografiche, siano esse Academy Awards, Leoni o Palme d’oro.
Se il momento è propizio per il Sud America allora ecco che si parla sempre di più della criminalità latina. Le brutalità della malavita sudamericana ha un nome, Pablo Escobar, e di fatto la sua vita ha già avuto numerose visitazioni da parte dei media, come vedremo in seguito, ma i gangster messicani che si aggirano dall’altro lato di El Paso, sono diventati leggendari, basti pensare all’incredibile personaggio di Anton Chighur di Non è un Paese per Vecchi, tanto da passare da villain a protagonisti della storia.
Un titolo su tutti? Sicario (2015) di Denis Villeneuve.
Denis Villeneuve deve farci l’orlo ai personaggi, trama non completamente riuscita, così abbatte la spettacolarizzazione, azzera il fattore violento tipico e si concentra sul conflitto morale, come in Prisoners. Come Bardem era l’ineluttabile destino in Non è un paese per vecchi, il personaggio di Del Toro è la morte che cammina, un sistematico prodotto delle due controparti che lo hanno reso tale e che annienterà come da copione. Per un pugno di dollari è nel DNA della sceneggiatura ma Villeneuve la trasforma, sceglie di seguire una strada opposta a quella ovvia per un un film del genere, la rende un anti-Peckinpah, fa una azzardo e decide di non conferire alcun appeal al suo personaggio per trasferirlo sull’enviroment, il Confine, terra franca oltre la quale tutto è proibito.
Come già in precedenza nelle opere tratte da McCarthy, i personaggi simboleggiano concetti, e in questo caso l’assenza di nome lo rende più evidente. Così il Procuratore vive un idillio da uomo normale, con una vita agiata che deve culminare nel matrimonio con la compagna. Un idillio sporco di sangue, ma il Diavolo non si espone, nella figura del narcos che è un folle in preda al delirio di una vita persa nel gozzovigliare, ma è la sua controparte, la cruda verità, interpretata da Cameron Diaz in uno dei migliori ruoli della sua vita, che spinge la narrazione su un terreno più concreto e realistico. Il mondo è marcio e sono tutti colpevoli.
Sia il personaggio di Bardem che quello di Del Toro sono notevolmente romanzati, e quello che c’è dietro ai killer del Cartello passa sotto il vaglio analitico di più di un media, alla ricerca di un nuovo tipo di Nemico Pubblico.
ANCORA OLTRE IL CONFINE
In ZeroZeroZero, presto serie TV, il giornalista e romanziere Roberto Saviano esplora parte di questo orrore, con un lavoro di ricerca di fonti generali approfondito, che esamina il fenomeno cocaina in diversi suoi aspetti. Come nasce questa gente? Da che famiglie viene? Quanto sono integrati nella società? Perchè non hanno nessun rispetto per la vita umana? I momenti più agghiaccianti arrivano con la descrizione della figura dei sicari. L’addestramento dei killer non è solo fisico, psicologico, empirico ma anche morale. Crescere un cagnolino durante il training e alla fine ucciderlo per dimostrare di non avere un’anima.
Per quanto riguarda l’aspetto più glamour della situazione, il documentario Narco Cultura (2013) di Shaul Schwarz dà un aspetto abbastanza allucinante della situazione. Chiaramente ispirato a The Art of Killing, esamina il fenomeno delle band musicali di musica Mariachi che hanno un certo successo al di là e qua del confine. Banditi che cantano le gesta dei Narcos, anche in maniera esplicita e colorita, fanno i pienoni ai concerti. Sicuramente accostabile al fenomeno dell’hip hop gangsta e della musica neo melodica, fa abbastanza specie per la spavalderia con cui questi personaggi rivendicano la loro sete di sangue.
Uno degli aspetti emblematici del fenomeno è proprio il fatto che il denaro è divenuto quasi un aspetto marginale della situazione, e una sorta di psicopatia collettiva si è impossessata di una parte consistente del continente.
In Blow (2001) di Ted Demme, Johnny Depp interpreta George Jung, che tentava di affrancarsi da una educazione materialista, e grazie al cartello di Medellin, aveva acquistato un controllo ineguagliabile.
Cosa succede al di qua del Confine messicano ce lo suggerisce Miss Bala (2011) di Gerardo Naranjo. Una ragazzina con il sogno di vincere un concorso di bellezza si trova nel mezzo della lotta ai narcos, utilizzata come merce di scambio in una bomba ad orologeria al cardiopalma. La sua innocenza verrà distrutta in mille pezzi da un vortice di eventi che non pare nemmeno essere condotto da esseri umani quando da un ingranaggio che trita tutto ciò che vi passa nel mezzo. Chiaramente la bella del film rappresenta il Messico, vessato da una situazione del genere. Gli eventi del film si ispirano alla tragica storia vera di Susana Flores Gamez, ventiduenne reginetta di bellezza uccisa dal cartello, ribattezzata Miss Bala Sinaloa. Ugualmente brutale e distruttivo, sulla stessa falsa riga ma con uno stile più gelido, è Heli (2013) di Amat Escalante. Nelle sue opere precedenti, Sangre e Los Bastardos, il regista spagnolo naturalizzato messicano si mostra debitore a Haneke, e il mix tra stile distaccato e ferocia latina genera un certo effetto straniante. In Heli stavolta la giovane innocente è poco più di una ragazzina ma quello che risalta è la disumana ferocia quasi autistica dei narcos che non si fermano veramente davanti a nulla. L’aspetto che viene dipinto è forse uno dei più concreti problemi delle popolazioni sudamericane. Il valore della vita umana è raso a zero e non vi è pietá per nulla e nessuno.
Chiaramente Mann spettacolarizza e glamourizza l’aspetto del traffico, dimostrando che nessuno aveva idea di quello che stesse veramente succedendo, e in qualche modo edulcorando l’immagine del narcotraffico tanto da farlo sembrare cool. Una promozione che fece molto gioco ai narcos, i cui metodi erano molto più spiccioli e artigianali. Tutto è avvenuto per divertimento, con la cocaina che rimpiazzava la marijuana. Colombiani, americani, cubani. Tutto il cash poi andava a finire nella lavanderia di Panama grazie al Generale Noriega. Tutto a portata di mano. Perfetto. Sembra talco ma non è, serve a darti l’allegria. Poi il denaro ha preso il sopravvento. Cifre esorbitanti che potevano finire alla mercè di tutti. Chiunque vorrebbe la bacchetta magica per diventare ricchi velocemente. A Miami in quell’epoca, la cocaina era la bacchetta magica. Roberts e Munday non fanno che parlare di numeri, cifre altissime guadagnate in un batter d’occhio. Una richiesta sempre crescente e chiunque in grado di soddisfarla al di qua del confine. Questo ha causato la guerra fra spacciatori, una guerra ancora più cruenta poichè non si trattava di professionisti ma di balordi divenuti all’improvviso potenti, e quindi avidi e paranoici.
E’ evidente come il problema fosse stato sottovalutato fino a che non è stata chiara l’entità del business. Finchè i miliardi non vennero a mancare dalle casse d’America. Esentasse. Precedentemente non ci sarebbe stato gioco contro il governo americano che avrebbe potuto spegnere il problema in quattro e quattro otto. A nessuno fregava niente che la cocaina facesse male. Il problema era il business. Quando si sono svegliati era troppo tardi, poichè i colombiani erano in grado di acquistare una armata.
Quando si arriva alla Colombia si pensa al Cartello di Medellin, il più potente di tutti i tempi, e anche se secondo Jon Roberts in Cocaine Cowboys il vero Re della Cocaina era il grasso e incensurato patriarca della famiglia Ochoa, Fabio Ochoa, la superstar di tutti i narcotrafficanti e colui che ha creato la leggenda ha un nome e cognome: Pablo Emilio Escobar Gaviria.
ESPERANZA D’ESCOBAR
Il Time dedicò una copertina alla disfatta di Miami titolando “Paradise Lost?”, riguardo proprio alla disfatta economica e morale di una città nelle mani del cartello. Questa immagine è ripresa nel titolo di Escobar: Paradise Lost (2014) di Andrea Di Stefano, tra i primi blockbuster biografici, in cui è Benicio Del Toro a interpretare El Patron. Tuttavia Escobar in questo film rappresenta più l’ambientazione del film, dato che si segue la storia di un ragazzo che si trova nei guai con il narcotraffico per essersi innamorato della nipote di Escobar. Una specie di Quei Bravi Ragazzi. Una mera anticamera all’opera omnia che finalmente esamina da cima a fondo la leggenda dell’uomo che sfido’ gli Stati Uniti: Narcos.
Mai come in questo caso, la storia del più potente narcotrafficante della Storia è stata raccontata nei dettagli. La scelta è quella di creare una versione romanzata dei fatti, così gli eventi sono grossomodo gli stessi, ma alcuni nomi e fatti sono stati opportunamente modificati. Quindi sì, Escobar era venuto dal nulla, aveva fatto uccidere e rapire innumerevoli politici e parenti di figure influenti in Colombia, ha assaltato il palazzo del governo, ha fatto saltare in aria un aereo, ha costruito una prigione di lusso dove faceva i propri comodi. Tutto vero, ma cucito ad arte per avere un’epicità tutta sua. Uno degli aspetti migliori di Narcos è il ritmo narrativo, incessante e emotivamente coinvolgente. Una continua scia di sangue lungo la quale viaggiano una serie di personaggi persi all’interno della vicenda. È il conflitto il vero dominatore della storia, quello che interessa alle parti è la vittoria. Privo di retorica, l’aspetto umano è polivalente.
Gli agenti della DEA scavalcano sempre di più il limite tra bene e male, il governo americano è ossessionato da controllo della proprietà altrui, il governo colombiano, seppur non privo di figure coscienti, rispecchia l’omertà e compiacenza del popolo, i narcos non hanno alcun rispetto per la vita umana, e poi Pablo. Sinceramente la scelta di un attore brasiliano, che evidentemente ha dei problemi a controllare la lingua, non è stata felicissima. Nonostante la trasformazione, l’Escobar di Wagner non dà l’idea del vero Escobar (Alfred Molina ha una certa somiglianza) non tanto per l’aspetto quanto per quell’aria da “ristoratore” o “impiegato delle poste” che el Patron si portava dietro.
La mentalità machiavellica di Escobar si sgretola davanti ai suoi occhi, troppo ignorante per ammettere che per un criminale è impossibile arrivare al potere. Soprattutto dopo una scia di sangue che lo ha trasformato in un terrorista. Escobar si sdoppia. Dentro di sè un uomo giusto che ha combattuto per il popolo, “un povero con tanti soldi”. Surclassato dal proprio ego, con mille occhi invidiosi su di lui che bramano per avere cio che ha lui e per eliminarlo. Pablo è in fuga continua da se stesso, costretto a mantenere la sua immagine di leader e sempre più propenso a commettere ingiustizie. La paranoia si impossessa di lui quando è accerchiato dal suo nemico più acerrimo, gli Stati Uniti, che teme a tal punto da punire i politici colombiani che vi si alleano. Perchè Escobar esiste solo in Colombia, abbastanza grande da far crescere il suo potere, ma abbastanza piccola da essere sottomessa.
È sorprendente vedere, nella seconda parte della prima stagione di Narcos, come Pablo Escobar abbia una regressione infantile e come creda di poter fare qualsiasi cosa. Gli stessi suoi scagnozzi, dei delinquenti farabutti, sono perplessi e a volte vittima di un atteggiamento ostinato di un uomo che finge di avere la situazione sotto controllo, ma che in realtà non fa altro che proporre soluzioni estreme e brutali. Come in altri pochi casi, la serie di Netflix dimostra la mentalità mafiosa senza renderla macchiettistica. Un abominio che in Italia è cultura, dove chi commette un crimine non può essere accusato poichè la stessa accusa è un’offesa. Dove le prove sono un optional e conta chi si circonda di più di farabutti pronti a dare ragione per interesse. Per denaro. Plata o plomo [denaro o piombo]. Escobar, minacciato dal Generale Carrillo, lo accusa, quasi con affetto, di non aver accettato i soldi come tutti, di averlo costretto alla guerra. Come se vi fossero delle ragioni superiori che non permettono la soluzione pacifica.
Un gioco di equilibri che non funziona mai finchè l’agente Murphy della DEA realizza il banale. I criminali vincono perchè non rispettano le regole. Ovvio che è una lotta impari. Dove non c’è onore e dignità, non si può che ripagare con la stessa moneta, e non aspettarsi altro. Sicuramente in Narcos vi è una evoluzione di Scorsese e di tutti i suoi epigoni. Dietro al glamour della criminalità organizzata c’è sempre gente piccola e senza onore.
Pablo Escobar: King of Cocaine (1998) di Steven Dupler si focalizza sulla personalità e la psicologia di Escobar come uomo e sulle motivazioni che lo hanno portato a fare mosse sorprendenti e scelte azzardate durante il suo regno. Viene fuori un uomo sicuro di se e totalmente disinteressato dall’autorità del potere costituito. Per Escobar il mondo era un campo di gioco dove lui era il miglior giocatore.
Bush dichiara che chiunque sia considerato nemico o pericolo per la nazione americana dal Presidente degli Stati Uniti può essere condannato a morte e perseguito dal Governo Americano. Se il terrore di Escobar era l’estradizione, questo cambiava le carte in tavola ulteriormente, rendendo la caccia al narcotrafficante una vera caccia all’uomo a livello globale, precedente e pari a quella di Osama Bin Laden.
Pecados de mi padre (2009) di Nicolas Entel, segue Sebastian Marroquin, figlio di Escobar, che racconta tutta la storia dal proprio punto di vista, cercando di narrare un aspetto alternativo di un uomo che a quanto pare era dopotutto un buon padre. Marroquin ovviamente non cerca nè il perdono nè di giustificare il genitore, ma aggiunge ulteriori tasselli alla personalità di un uomo in una posizione incredibile ma dotato a modo suo di un equilibrio interiore.
Altri titoli per approfondire ulteriormente la storia di Pablo sono Ciudadano Escobar (2004), The Two Escobars (2010) di Jeff e Michael Zimbalist, che racconta l’incredibile storia di Andres Escobar, campione di calcio colombiano nella Nazionale che il Cartello aveva sovvenzionato, il quale nel 1994, durante i Mondiali a Los Angeles, segnò l’auto goal che costò l’eliminazione della Colombia, e la condanna a morte da parte dell’omonimo Pablo. Carlitos Medellin (2004), coproduzione franco-colombiana, racconta la storia delle vittime civili del Cartello attraverso la voce di un fictional character, un bambino di Medellin. Il recentissimo Cartel Land (2015) di Matthew Haineman, racconta di una sorta di gruppo di vigilantes instauratosi per contrastare il cartello.
fine…?