Horror & Thriller

12 Hour Shift: la recensione del film horror di Brea Grant (Sitges 53)

Angela Bettis e David Arquette sono i protagonisti di una dark comedy dell'assurdo spruzzata di sangue e maldestrità

È difficile non pensare che 12 Hour Shift di Brea Grant (che torna al lungometraggio a 7 anni da Best Friends Forever) non condivida almeno un filamento del DNA riscontrabile solitamente negli ensemble di ‘tipi’ messi insieme dai fratelli Coen (o in minor misura da Steven Soderbergh). Quel tipo di commedie dark piene di scelte sbagliate, errori grossolani, colpi di fortuna insperati e scherzi del destino mascherati da preparazione e intelligenza.

La regista manovra la cinepresa con sicurezza e con la padronanza del consueto caos presente nei B movies – nei quali sguazza ormai da quasi 15 anni – abbracciandone il lato più sanguinosamente assurdo e incredibile. È così che un già normalmente infinito e faticoso turno notturno in ospedale prende una piega ancora più allucinante nel momento in cui tra i suoi corridoi piombano cacciatori di organi armati, condannati alla sedia elettrica, parenti infuriati, finte infermiere dall’omicidio facile, poliziotti idioti e guardie giurate ancora più stupide, per un delirio di suspense e sangue che rende fino all’ultimo istante difficile capire chi finirà per scamparla.

12 Hour Shift ci mette un bel po’ a carburare, è vero, ma una volta raggiunto il punto di non ritorno tira dritto senza guardarsi più indietro, lasciandosi alle spalle una scia di corpi, risate e nonsense.

Angela Bettis (May, The Woman) interpreta Mandy, un’infermiera dell’Arkansas che arrotonda lo stipendio trafficando organi umani sottobanco. Regina (Chloe Farnworth), la sua cugina acquisita, si presenta sul posto per concludere il loro ultimo ‘affare’, ma commette un errore fatale.

La svampita bionda ritorna infatti dal boss Nicholas (il wrestler Mick Foley) con una borsa frigo vuota, senza i reni richiesti, ed è quindi costretta a scapicollarsi di nuovo all’ospedale di Mandy in cerca di organi freschi ‘alternativi’. Iniziano così le dodici ore più lunghe della carriera di Mandy, mentre col passare del tempo l’anarchia prende possesso del secondo piano della struttura e una serie di inimmaginabili eventi a catena iniziano a susseguirsi a ciclo continuo.

Per entrare nella visione col mood giusto, bisogna essere necessariamente consapevoli che 12 Hour Shift è una commedia dell’assurdo spruzzata di gore. Se nel mondo reale nulla di quanto avviene potrebbe mai accadere (o almeno lo si spera …), nell’universo di Brea Grant veniamo catapultati nel 1999, al culmine della paranoia da ‘millennium bug’, con la gran parte delle forze di polizia distratta dalle iniziative della “task force Y2K”, con una Regina che può vestire indisturbata la fascia di “Reginetta in erba degli omicidi” senza alcuna ingerenza esterna, con cadaveri che si accumulano ovunque tranne che nell’obitorio della struttura (si, beh, tranne uno …) e con personaggi maschili che si ritrovano talmente offuscati dalle donne in camice che stanno raccogliendo le viscere dei pazienti in qualche stanza che non si accorgono di star favorendo il commercio illegale di organi.

Insomma, l’ospedale è un campo di battaglia per 85 minuti, dove le coincidenze e il ridicolo diventano ‘normali’ a un livello che potrebbe irritare gli spettatori che scelgono di approcciarsi al film guidati dalla mera logica.

Ciò di cui beneficia in particolare 12 Hour Shift – che è immerso costantemente nella musica – è la semplicità con cui Brea Grant tratteggia i suoi personaggi, senza calcare la mano ad esempio sul classico stereotipo del redneck, limitandosi a tratteggiare un archetipo ‘credibile’ (almeno all’interno dell’ecosistema del film). L’esaurimento ampiamente percepibile sul viso di Angela Bettis mentre tenta di ripulire l’enorme casino creato da Regina, in mezzo a un altro centinaio di ostacoli vari, è già, di per sé, una efficace traduzione della bocca spalancata del pubblico davanti a quello che sta capitando sullo schermo.

La sexy, egocentrica, sciocca e capricciosa Chloe Farnworth dimostra come si possa smarrire non uno, ma addirittura due contenitori per organi e intanto dilettarsi spensieratamente con l’assassinio di massa improvvisato e brutale, trovando nel mentre il tempo per balletti osé mentre è coperta di vomito e sangue. Nessun personaggio appare mai superfluo, aggiungendo solamente un’altra dose di complicazioni e imprevisti. La sconsolata Nikea Gamby-Turner è la ‘partner in crime’ e capo di Mandy, Tom DeTrinis è un ipocondriaco ficcanaso che infesta la hall in cerca di ipotetiche cure che nessuno vuole dargli, mentre il condannato a morte Jefferson (interpretato da David Arquette) si libera e vaga libero. Insomma, una rosa da far impallidire le 9 stagioni della serie Scrubs.

E man mano che le gesta di Mandy diventano più raccapriccianti e avventate, Brea Grant inchioda il valore comico-grottesco di 12 Hour Shift. Ad esempio, quando l’esile protagonista si trova costretta a girare un cadavere piuttosto pesante sul tavolo d’acciaio dell’obitorio la frustrazione e l’arguzia della donna, l’umorismo più cupo del film raggiunge i suoi massimi apici.

La regista non ha però mai bisogno di esagerare con Mandy che lotta per spostare il grasso corpo, perché appoggiarsi troppo allo slapstick diventerebbe una scelta prepotente. Piuttosto, sceglie di concentrarsi sul ‘massaggio’ da parte dell’infermiera all’ego di un poliziotto accorso per un rumore, accarezzandogli la mano con un guanto insanguinato che, per qualche ragione, non desta alcun sospetto (così come la mattanza alle sue spalle).

Un momento che esemplifica bene l’approccio calmo, teso in qualche modo a straniare chi guarda, di Brea Grant mentre il suo tortuoso racconto fa incrociare il cammino di Mandy con pazienti in overdose, sicari che vengono colpiti agli occhi con aghi ipodermici e un’anziana e disorientata paziente che infierisce sul medesimo malintenzionato in difesa di una ‘vecchia amica’ che proprio tale non è.

L’aspetto che alla fine funziona forse di più di 12 Hour Shift, al di là del semplice ‘divertimento’ a effetto di superificie, è come Brea Grant riesca a tirare una frecciata alla negligenza del sistema sanitario (americano?) nascondendola sotto la facciata di una collezione disordinata di azioni di individui completamente imbecilli.

Niente di particolarmente sofisticato o caustico, evidente, ma una visione adeguatamente ‘di genere’ sulla questione, un tipico titolo da ‘maratona di mezzanotte’ capace di regalare risate e brividi maldestri.

Di seguito trovate il trailer internazionale di 12 Hour Shift:

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