Categories: Horror & Thriller

A Beautiful Day (You Were Never Really Here): la recensione del film di Lynne Ramsay

Joaquin Phoenix non brilla in un adattamento che - nonostante i premi a Cannes - ricorda più che altro una copia sbiadita di Drive

Estremamente ambizioso in termini di estetica e di concettuosità, A Beautiful Day – You Were Never Really Here, diretto e adattato dalla scozzese Lynne Ramsay (che torna alla regia a sei anni da … e ora parliamo di Kevin) da un romanzo di Jonathan Ames, affascina per la meticolosità con cui è strutturata via via la narrazione, ma si rivela a uno sguardo più attento e smaliziato un revenge movie inconsistente.

La storia, volutamente scioccante, è incentrata su Joe, una detective privato incarnato da un ruvidissimo Joaquin Phoenix, che viene assoldato da un senatore per riportare a casa quella che dichiara essere la figlia minorenne, Nina (Ekaterina Samsonov), scappata di casa dopo la morte della madre e finita in un turpe giro di prostituzione minorile. Dunque l’uomo si appresta, dopo una dilatatissima preparazione, ad addentrarsi nell’edificio in cui è rinchiusa la ragazzina e, dopo aver ucciso brutalmente un paio di scagnozzi e qualche cliente, finalmente la trova e la porta via con sé.

Tuttavia, una volta giunto all’albergo designato per la ‘restituzione’ al presunto padre dell’adolescente, si presenta un manipoli di uomini armati che la portano via con la forza e che sparano a Joe, cercando di ucciderlo. Ne segue l’eliminazione a catena di tutte le persone venute in contatto con il protagonista, come se si volesse cancellare ogni traccia di lui e di ciò che sa, ma la lunga scia di sangue, di cui è facilmente comprensibile il mandante, non rimarrà senza conseguenze.

La primissima sensazione guardando A Beautiful Day – You Were Never Really Here è che Lynne Ramsay abbia voluto in ogni modo conferire al suo film quell’aura di ermetico intellettualismo che tanto è acclamata da una certa critica, un po’ superficialmente alle volte; è però quello che in gergo popolare potrebbe definirsi uno specchietto per le allodole.

Si vorrebbe infatti replicare in molti aspetti quell’estrema cerebralità e raffinatezza di alcuni film di Nicolas Winding Refn, in particolare di Drive, ma quell’enigmaticità che al regista e al suo protagonista, Ryan Gosling, riusciva perfettamente, nel suo doppio che fa capo all’accoppiata Ramsay/Phoenix, risulta fin troppo astruso, strambo e, soprattutto, forzato.

Anzitutto c’è il personaggio centrale, Joe, un emarginato come lo stuntman interpretato dall’attore londinese, la cui psicologia e mimica sembra qui essere replicata pedissequamente da Joaquin Phoenix (che si aggira peraltro a lungo per le vie della città con la sua macchina); pare quasi di essere davanti a un clone, fatto che lascia ancor più perplessi se si pensa alle indiscutibile abilità attoriali di quest’ultimo. Il suddetto sa certo affrontare con ottimi risultati ruoli complessi, si pensi solo a The Master di Paul Thomas Anderson, ma qui le sue capacità indubbiamente non vengono esaltate.

La colpa però non è da attribuire a Phoenix, che prova in ogni modo a dar profondità alla sua parte (che gli è incredibilmente valsa il premio come Miglior attore all’ultimo Festival di Cannes …), ma a chi lo dirige e ha scritto la sceneggiatura (sempre premiata alla recente manifestazione francese …), che in primo luogo forza ogni gesto ed espressione del personaggio; la refniana centellinatura degli scambi verbali, come se ogni parola fosse divina rivelazione, peggiora il tutto. In secondo luogo, ricorre a una singolare declinazione del montaggio alternato, in una combinazione di presente e repentino scorcio sul passato quale digressione evocativa, che però ha il risultato di riuscire straniante – non in senso positivo – e di appiattire con le continue interruzioni dell’azione la psicologia di Joe.

L’inserimento delle traumatiche memorie di questi appaiono d’altro canto un mero escamotage per inserire un’ulteriori problematizzazione, tesa a suscitare suggestione, del protagonista, tra trascorsi come militare in una non specificata missione e violenze di quando era un bambino; i ricordi tuttavia sono talmente abbozzati da comunicare molto poco.

L’estrema frammentarietà ricercata dalla filmmaker nella diegesi e nel tessuto filmico è dunque finalizzata ad ammantare di concettualismo il suo indie pretenzioso, senza però avere la visionarietà di Refn, a cui palesemente guarda e di cui sono ripresi anche la fotografia, l’uso di un’illuminazione monocroma in alcuni passaggi e la patinatura di alcune immagini e addirittura la colonna sonora sincopata di Cliff Martinez (caratteri che, seppur non originali, sono comunque i più riusciti di A Beautiful Day – You Were Never Really Here). Inoltre, se non è spiegato o approfondito pressoché nulla, quel poco che è mostrato in un turbine di immagini e scene evocative e sconnesse quanto le visioni premonitive delle Pizie, è reso ulteriormente oscuro da alcune sequenze dall’alto contenuto allegorico.

Ne è esempio emblematico un bagno nel fiume con cadavere a cui si fonde una messianica visione della futura missione, o meglio di uno scopo esistenziale, che risulta però piuttosto grottesca nella sua pretesa d’intellettualismo metaforico. In ultimo, lo snobismo manierista di cui è pervaso A Beautiful Day – You Were Never Really Here determina l’omissione di ogni dettaglio cruento: scelta assurda come molte altre, in un film incentrato pressoché solo su un brutale vendicatore che picchia bestialmente chiunque intralci il suo cammino con mazze, martelli e a mani nude, la violenza è lasciata sempre fuori campo.

Sebbene dunque ci sia una certa abilità registica, Lynne Ramsay nell’eccessiva ricerca di autorialità perde di vista il quadro complessivo, sprecando il discreto materiale di partenza e un ottimo attore come Phoenix, in un nebuloso pastiche machiavellico marcatamente artefatto.

Di seguito trovate il trailer internazionale di A Beautiful Day – You Were Never Really Here:

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Published by
Sabrina Crivelli