Katherine Waterston e Michael Fassbender sono i protagonisti di un sequel che vuole distanziarsi ma allo stesso tempo proseguire il discorso iniziato con Prometheus, finendo per non accontentare nessuno
Bisogna partire da una grande e a prima vista controversa premessa – che si può leggere anche come sintetico giudizio – prima di addentrarsi in Alien: Covenant. Quelli (non troppi) a cui è piaciuto Prometheus, rimarranno probabilmente delusi. Coloro ai quali già non era piaciuto, potrebbero invece essere costretti a rivalutarlo.
E qui sta la sua prima e più grande colpa.
Se nel bene o nel male Prometheus aveva in qualche modo rilanciato e rinnovato la serie cominciata nel 1979 e ferma dal 1997 (dimentichiamoci dei due crossover con Predator …), portando una ventata di filosofeggiante aria fresca nella sua mitologia piuttosto cristallizzata con l’ingresso in campo degli Ingegneri e della ricerca delle origini della vita umana stessa, Alien: Covenant fa ora un passo indietro, epurando lo sceneggiatore Damon Lindelof in favore di John Logan (dietro alle origini di James Bond), scegliendo la strada del sequel più tradizionale di una saga di culto, riprendendone quindi gli stilemi da tempo presenti nell’immaginario collettivo (il rapporto tra l’uomo e la macchina, il diritto alla creazione, alla vita, alla maternità e alla protezione di ogni forma di vita), forse (aka molto probabilmente) memore delle aspre critiche ricevute dal predecessore, che invece se ne era distaccato – a torto o a ragione – troppo.
Il risultato è pertanto, da un lato, il seguito di un’opera che ha ben pochi estimatori, dall’altro un lungometraggio di 122′ che come tutti i seguiti realizzati a molti anni di distanza dai parenti ormai divenuti dei ‘classici’ suona decisamente fuori tempo massimo, un’operazione meramente commerciale per continuare a incaponirsi su idee vecchie – credendo di svecchiarle – invece che su qualcosa di nuovo, come già successo con Terminator, Predator, Conan, Indiana Jones o Jurassic Park (e presto Tomb Raider ecc. ecc. ecc.).
Non è un caso che tutti i tentativi citati perdano miseramente il confronto qualitativo se paragonati con gli illustri predecessori, e non si tratta certo di mera nostalgia. Discorso a parte quello degli incassi, dove, eccetto rarissimi casi (leggi Conan the Barbarian), i produttori hanno sempre avuto ragione, con gli spettatori che sono accorsi a frotte nei cinema per vederli, salvo poi rinnegarli (esempio emblematico Il regno del teschio di cristallo, quasi 800 milioni di dollari al botteghino).
Questa comunicazione – estremamente disturbata ma decifrabile quel tanto che basta – sembrerebbe essere stata inviata da un essere umano che si troverebbe forse in difficoltà sulla superficie di un pianeta che a quanto pare risulterebbe idoneo alla vita e quindi alla terraformazione che si erano prefissati. I membri della Covenant decidono così di approfondire la sorprendente scoperta, che potrebbe far risparmiare loro molti anni di tempo, e inviano una prima missione sulla superficie. Quello che trovano appena sbarcati non è il Paradiso Perduto (il primo titolo doveva essere appunto Paradise Lost), rendendosi ben presto conto dell’avventatezza e della pericolosità della loro pensata.
Questa scelta riflette però lo smarrimento di Ridley Scott, che se da un lato sembra voler proseguire con decisione il ‘nuovo corso’ di eventi avviato con Prometheus, aggiungendo un altro importantissimo tassello a come gli Xenomorfi siano legati a doppio filo con gli esseri umani e siano diventati quelli che abbiamo imparato a temere (gettando però in questo modo definitivamente al vento tutto mistero celato maestosamente dall’astronave abbandonata e dal suo gigantesco Space Jockey nella pellicola del ’79), dall’altro pare volersi dimenticare del film del 2012, evitando praticamente di dare qualsivoglia informazione aggiuntiva sugli Ingegneri alieni e sulla loro ingerenza nella nascita della vita terrestre, aspetti tutt’altro che risolti e dei quali sarebbe stato lecito aspettarsi un approfondimento, vistane la centralità nell’opera precedente.
Niente è particolarmente immaginifico, tutto è mestamente ‘ok’, con un retrogusto di già visto, anche se la colonna sonora del chitarrista australiano Jed Kurzel (al lavoro, ad esempio, su The Babadook) concorre a creare la giusta atmosfera, tenendo alta la tensione.
E’ innegabile che Scott sappia padroneggiare una pellicola di fantascienza con elementi horror (il sangue scorre, pur senza eccessi), costruendo la paura attraverso una lenta suspense per poi colpire improvviso quando le cose cominciano ad andare male. La scelta di optare per la completa CGI nelle sequenze con lo Xenomorfo non ancora adulto sono tuttavia piuttosto criticabili, proprio perchè stonano col resto, ricostruito meticolosamente a mano. Un altro problema è che il pubblico sa benissimo cosa i potenziali colonizzatori affronteranno presto sul misterioso pianeta, e pur apprezzando lo sforzo, in particolare attraverso nuovi dettagli sul ciclo di vita della creatura, sono davvero pochi i colpi di scena.
E l’idea di renderli tutti delle coppie – una cosa che ha perfettamente senso in vista di una colonizzazione – per aggiungere una nota drammatica extra, è lodevole solo sulla carta. Se Danny McBride e Billy Crudup offrono performance dignitose, sono Katherine Waterston e soprattutto Michael Fassbender gli assoluti protagonisti.
La Daniels interpretata dell’attrice londinese, che saggiamente evita il confronto diretto con l’inarrivabile Sigourney Weaver, si mette d’impegno, tirando fuori le unghie negli scontri decisivi, ma rimane troppo dimessa e innocente, mancando completamente dell’aria minacciosa necessaria per il ruolo che ad esempio Noomi Rapace (il cui destino viene spiegato nel cortometraggio di cui si parlava all’inizio) riusciva a raggiungere. Discorso diverso per l’attore di origini tedesche, qui nel duplice fondamentale ruolo del redivivo David (di Michelangelo …), androide difettoso che gioca a fare Dio ma le cui motivazioni non vengono mai del tutto spiegate, e di Walter, la sua versione più teoricamente avanzata e mansueta.
Evitando spoiler, viene qui reso finalmente palese che ruoterà attorno a lui il grande disegno dietro a quella che diventerà la nuova quadrilogia di Alien anni (20)’10. Se nei primi quattro film la figura di Ellen Ripley era infatti veicolo del tema della “madre/maternità”, David lo è/sarà ora per quello di ‘padre/paternità’, (ri)pescando per l’occasione a piene mani da Mary Shelley ed H. G. Wells, le cui ombre incombono nemmeno troppo velate.
I paragoni sono spesso inutili, ma guardando ai primi quattro film, che sono – chi più, chi meno – capolavori visti anche non in ordine preciso, girati peraltro da quattro registi diversissimi tra loro e senza grandi disegni trasversali premeditati alle spalle, l’unica certezza è che sarebbe sempre di gran lunga meglio lasciare i classici al loro posto e provare a dedicarsi a idee magari più rischiose ma senza dubbio almeno nuove (Sopravvissuto – The Martian dice niente?). I cult nascono così in fondo no?
Ah, per chi se lo domandasse, non essendo un film Disney non sono presenti scene extra dopo i titoli di coda.
Di seguito trovate il prologo di Alien: Covenant: