Azione & Avventura

Archenemy: la recensione del film di Adam Egypt Mortimer

Joe Manganiello è un misterioso supereroe in una insolita storia delle origini che gioca a decostruire il genere, rivelandosi meno banale di quanto potrebbe apparire a prima vista

Lo sceneggiatore e regista Adam Egypt Mortimer sta sviluppando un’estetica artistica molto specifica dopo solo tre lungometraggi alle spalle. Il primo, Another Kind of Hate (2015), esplorava il bullismo con una piega soprannaturale. Il secondo, Daniel Isn’t Real (2019), è un’esplorazione della salute mentale, in particolare della schizofrenia, che nel terzo atto prende una brutta piega verso il body horror soprannaturale.

Laddove il primo possedeva una tavolozza cromatica più tradizionale, il secondo si appoggiava molto di più sui neon, immergendo nei viola profondi, nel rosso sangue e nei neri inchiostro i costumi, le scenografie e l’illuminazione per aumentare il senso di alterazione della realtà e il crescente isolamento. Ora, con Archenemy – presentato in anteprima a Sitges – il regista prende queste esperienza e le fonde per una storia delle origini di un supereroe destrutturata che chiede al pubblico cosa sia più pericoloso: se credere che un super essere ci salverà oppure che lui verrebbe effettivamente in nostro soccorso.

Dopo una lunga battaglia con la sua nemica storica Cleo Verntrik (Amy Seimetz), l’eroe Max Fist (Joe Manganiello) si sacrifica per impedirle di usare un’arma che avrebbe distrutto la sua casa; tuttavia, così facendo, viene teletrasportato attraverso le dimensioni fino al nostro mondo, dove si ritrova completamente privo di poteri. O, almeno, questo è ciò che Max, un senzatetto spesso ubriaco, dice a chiunque lo ascolti. Il giornalista in erba Hamster (Skylan Brooks), fresco di nuovo account su Trendible Media con la promessa di un lavoro a tempo pieno se riuscirà a scovare uno scoop, inizia a seguire e a conoscere Max, in parte perché gli crede e in parte perché la sua storia sta guadagnando popolarità online.

Quando l’intraprendente sorella di Hamster, Indigo (Zolee Griggs), si mette nei guai con il suo capo, lo spacciatore di droga The Manager (Glenn Howerton), Max interviene, salvandole la vita nell’immediato, ma mettendole sulla schiena un bersaglio. Se Max avesse ancora i suoi poteri, niente di tutto questo sarebbe un problema, ma più tempo trascorrono con Max, più i due fratelli si chiedono se li abbia effettivamente mai avuti.

Senza averne conferme ufficiali, sembra che Adam Egypt Mortimer stia sviluppando il suo personale ‘vorticoso universo cinematografico condiviso‘ passo dopo passo, un terreno di gioco in cui creare storie, al di là dei singoli film. Il collegamento è il vortice presente in modo prominente nella campagna marketing di Archenemy, mostrato brevemente anche all’inizio e menzionato di sfuggita dallo stesso Max.

Quel vortice è descritto come una porta tra le dimensioni e la sua esistenza all’interno di quest’opera potrebbe essere semplicemente un’intuizione visiva per rendere ‘fisico’ un aspetto della storia di Max. La cosa curiosa, però, è che appariva anche in Daniel Isn’t Real sotto forma di una porta tra l’Inferno da cui proviene lo spettro Daniel e il nostro piano di esistenza. Due indizi potrebbero fare una prova, no?

In ogni caso, quello che Adam Egypt Mortimer e il co-sceneggiatore Luke Passmore creano per Archenemy sono parti uguali di azione-avventurosa e di thriller psicologico, avvolti nella decostruzione di cliché sui supereroi a cui i cinecomic ci hanno ormai abituato. Max è un po’ come il Batman di Il ritorno del cavaliere oscuro di Frank Miller, brizzolato, frustrato e quasi arrivato al punto di non importargli più nulla di niente.

Il rapporto che sviluppa con Hamster è costruito sullo stesso materiale visto per Jimmy Olsen con Superman nei fumetti della DC Comics (lampante è l’orologio ‘localizzatore’ da usare in caso di guai). L’uso un approccio familiare – almeno a un certo pubblico – consente al regista di ‘abbreviare’ il viaggio dell’eroe perché, parole sue, “Abbiamo lasciato che le storie delle origini scorressero come sangue cosmico nelle nostre vene nel corso degli ultimi dieci anni e mezzo circa. Ora siamo tutti quanti esperti e questo significa che possiamo iniziare a vedere tutta questa roba in modi nuovi”.

È qui che le cose si fanno divertenti per gli spettatori, mentre Adam Egypt Mortimer si addentra direttamente nel selvaggio e nel bizzarro senza un vero set-up, presumendo che chi guarda colmerà le lacune con le sue conoscenze preesistenti. Da un lato, questo rende Archenemy straordinariamente di nicchia, confidando che il pubblico si approcci con abbastanza background da superare il gap. Dall’altro, considerando l’afflusso di supereroi di varia foggia e natura in ogni media oggi, chi davvero può dirsi digiuno della materia?

La decostruzione è ciò che rende Archenemy avvincente, chiedendo se Max sia ‘vero’ o meno, cosa significa se lo è, perché è importante se non lo è. Il regista e lo sceneggiatore si divertono a seminare elementi che avvalorino entrambe le ipotesi e, all’interno di quello spazio, arriva di soppiatto la fastidiosa domanda sul perché, in primo luogo, guardiamo ammirati agli eroi.

Per creare l’estetica in grado di trasmettere sullo schermo le origini di Max, il suo viaggio percepito da un regno a un altro, così come la lotta interna su ciò che il protagonista crede essere vero, Adam Egypt Mortimer ricorre a una miscela di animazione 2D e 3D, a un design dei costumi avvincente, alla direzione artistica e al trucco.

Il design artistico e l’animazione frutto degli sforzi combinati di Sunando C, Danny Perez e Kevin Finnegan creano uno stile artistico splendido ma tormentato, dal quale il pubblico scruta nella mente di Max. A volte avviene sotto forma di ricordi, a volte lo sovrasta, ma in entrambi i casi, linee limpide di blu e magenta si sovrappongono o si scontrano contro figure acromatiche. Nessun comfort, solo il ricreare una mente potenzialmente ‘fratturata’.

Questo si fonde con il mondo che Adam Egypt Mortimer ci presenta in piccoli modi, come ad esempio il costume di Max, l’unica cosa che è rimasta del suo mondo, che è principalmente nero con crepe magenta che attraversano la tuta e il mantello. Il costume di un eroe è, ​​di per sé, una rappresentazione stessa dell’eroe, quindi cosa ci dice tutto questo di Max? Cosa ci dice quando ci affidiamo alla persona che lo indossa? Il regista e il suo team ci pongono queste domande, dandoci poche risposte.

Consideriamo lo stile di Skylan Brooks, con la parola “Fiction” tatuata sotto l’occhio. Implica forse che lui è un giornalista con un occhio per le storie, ma il significato dichiara piuttosto un’affinità per la narrazione di finzione che con la capacità di saper gestire le verità del mondo. Quando tutti questi pezzi vengono messi insieme, Archenemy si rivela allora un saggio oscuro e terribile, che incrimina coloro che amano i supereroi senza pensare a ciò che noi, il pubblico, li sottoponiamo settimana dopo settimana, mese dopo mese, solo per divertirci.

Anche le performance degli attori sono state attentamente pensate in Archenemy. Attore solitamente affascinante, Joe Manganiello fa emergere qui qualcosa di più profondo e cupo, usando la sua fisicità per diventare addirittura più minaccioso del suo Deathstroke alla fine di Justice League (2017). Ci sono un’espressività e un dolore penetrante negli occhi e nel corpo del protagonista tali che ogni atto di Max sembri gravato da un peso perpetuo. La sua rabbia è dovuta alla situazione contingente oppure è sempre stata lì?

Lo script ci offre una risposta, ma la performance di Joe Manganiello può essere letta in entrambi i modi. Nei panni di Hamster, Skylan Brooks gli conferisce un’ingenuità giovanile, presentando qualcuno così voglioso di emergere da essere disposto a esplorare e smascherare cosa c’è sotto la superficie del mondo che lo circonda nel tentativo di farsi strada. Man mano che il ragazzo trascorre più tempo con Max, diventa il punto di vista del pubblico, richiedendo all’attore di trasmettere un dubbio credibile o un fandom sincero.

Nei panni della sua protettiva sorella maggiore da capelli blu Indigo, Zolee Griggs riesce a imprimere una maggiore profondità rispetto ad Hamster. Lei è la ‘custode’ di Hamster dopo che i genitori sono entrambi scomparsi, un compito non certo semplice. All’attrice non viene offerto lo stesso arco narrativo completo dei due colleghi maschi, ma il potenziale c’è e si vede, e nulla viene sprecato del materiale che le viene messo a disposizione.

Per che li conoscesse, i comici Paul Scheer (The Good Place) e Glenn Howerton (It’s Always Sunny in Philadelphia) fanno una significativa comparsata in Archenemy, interpretando personaggi così bizzarri e sfasati che inevitabilmente vi ritroverete a meditarci sopra per un po’.

In definitiva, Archenemy è un’affascinante storia di supereroi racchiusa in un thriller psicologico. Non sempre funziona come dovrebbe (taglia un po’ troppo, concetti  importanti vengono spazzati via troppo rapidamente e altri aspetti ugualmente significativi restano abbastanza inesplorati) e avrebbe potuto trarre qualche vantaggio da una durata superiore, ma rimane ugualmente una visione premurosa e coinvolgente.

La cosa più impressionante è come le idee presentate da Adam Egypt Mortimer possano sembrare un po’ trite al momento, salvo rivelarsi un puzzle da risolvere quando ci si mette davvero a riflettere su quanto visto nel film.

Di seguito trovate il full trailer internazionale di Archenemy:

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Published by
William Maga