Un film che scorda completamente il primo capitolo, tentando di rifare Nightmare senza averlo compreso
Black Phone 2 segna il ritorno del regista Scott Derrickson e dello sceneggiatore C. Robert Cargill dopo il successo inatteso del primo capitolo, tratto da un racconto di Joe Hill. Ma se il film del 2021 riusciva a unire il realismo sporco dei sobborghi anni Settanta con un soprannaturale essenziale e inquietante, il seguito si perde in un labirinto di citazioni e moralismi, oscillando tra horror giovanilistico, melodramma spirituale e imitazione involontaria di Nightmare. È come se il telefono nero, invece di collegarci con l’aldilà, stavolta componesse un numero sbagliato.
La vicenda riprende quattro anni dopo la morte del Rapace, l’assassino mascherato che nel primo film rapiva bambini con un furgone nero e li torturava nel suo scantinato. Finney (Mason Thames), il ragazzo sopravvissuto, vive schiacciato dal trauma, tra silenzi, risse e marijuana usata come anestetico. Sua sorella Gwen (Madeleine McGraw), invece, continua a sognare: sogni lividi, profetici, dove tre bambini uccisi invocano aiuto dal fondo di un lago ghiacciato. Il loro legame con un campo cristiano, Alpine Lake, dove la madre dei due aveva lavorato negli anni Cinquanta, riapre una ferita mai rimarginata. È lì che Gwen, Finney e il loro amico Ernesto si dirigono, trovandosi intrappolati da una tempesta di neve e da presenze che non hanno mai smesso di chiamare.
Derrickson costruisce un racconto che alterna sogno e realtà, usando la grana del Super 8 per distinguere le visioni dai momenti concreti. È un’idea interessante, ma presto abusata: i sogni diventano una scorciatoia narrativa, una valvola visiva sempre uguale. Ogni notte Gwen rivive la stessa sequenza di inseguimenti, ogni giorno i protagonisti scoprono un nuovo indizio telefonico, fino al prevedibile scontro finale sul lago ghiacciato, dove il Rapace – o ciò che ne resta – volteggia su pattini insanguinati. Un’immagine nata per sorprendere, che finisce invece nel territorio del grottesco.
Il film invita apertamente al paragone con Nightmare – Dal profondo della notte, ma ne esce sconfitto su ogni fronte. Freddy Krueger aveva regole ferree: il sogno era uno spazio con confini logici, deformabile ma coerente; la paura nasceva dalla fusione tra desiderio e punizione, vita e morte. Il Rapace di Black Phone 2 invece appare e scompare senza logica, a volte onnipotente, altre prigioniero del telefono, incapace di incarnare un vero incubo. Laddove Nightmare inventava, qui si imita: il sogno come scorciatoia, non come linguaggio.
Finney, figura centrale del primo film, viene relegato al ruolo di comprimario. Il suo dolore, che avrebbe potuto essere il cuore del racconto, viene liquidato in pochi dialoghi di terapia improvvisata. Gwen, promossa a protagonista, regge il peso con coraggio ma anche con troppa didascalia. Ogni emozione è spiegata, ogni visione interpretata, ogni simbolo esplicitato. Il risultato è un cinema che non suggerisce ma commenta sé stesso, togliendo mistero e tensione.
A questo si aggiunge un insistito sottotesto religioso che attraversa tutta la storia: croci, citazioni bibliche, riflessioni sulla fede come dono o condanna. Il tema della salvezza sostituisce quello della paura. Ma la spiritualità qui non illumina, predica. Black Phone 2 sembra voler convertire l’orrore in parabola morale, e così lo svuota. L’angoscia del primo film – la prigionia, la sopravvivenza, la violenza quotidiana – diventa un sermone tra sonno e colpa.
Sul piano tecnico il film è impeccabile: fotografia nitida, paesaggi innevati suggestivi, alternanza di pellicola e digitale ben calibrata. Ma l’estetica non basta quando manca il ritmo. Il primo tempo è un eterno prologo, il secondo una corsa che arriva troppo tardi. I momenti di paura sono meccanici: telefonate, rumori, apparizioni. L’angoscia non cresce mai, resta orizzontale. Persino la colonna sonora, cupa e insistente, non riesce a creare la tensione che la regia non costruisce.
Il finale, che vorrebbe essere liberatorio, suona invece come un epilogo forzato. Il Rapace non è sconfitto, ma neppure vittorioso: semplicemente svanisce, come se anche il film si stancasse di inseguire il proprio fantasma.
Black Phone 2 è allora l’esempio perfetto di un seguito inutile. Riprende un mondo chiuso e compiuto e lo riapre senza urgenza narrativa, svuotando ciò che aveva funzionato. Il primo film era piccolo, compatto, radicato nella paura reale del sequestro, sostenuto da un’idea semplice ma potente: il telefono come contatto con i morti. Il secondo, invece, gonfia la trama con misticismi, retcon e visioni, fino a trasformare il Rapace in una caricatura di Freddy Krueger, ma senza il sarcasmo, l’inventiva o il coraggio del sogno.
Ciò che doveva essere un incubo diventa un dormiveglia lungo due ore, un horror che si prende troppo sul serio e non spaventa mai davvero. Derrickson cerca il significato, ma dimentica il terrore. E quando il telefono squilla, non è più la voce dei morti a rispondere: è l’eco di un cinema che non sa quando tacere.
Un horror freddo come la neve che lo avvolge, visivamente curato ma narrativamente esausto. Il Rapace rinasce solo per morire di nuovo, questa volta ucciso dall’eccesso di spiegazioni e dall’assenza di paura. Rispetto a Nightmare, Black Phone 2 è un sogno senza regole, senza ritmo e senza cuore: un film che chiama dal passato ma, quando rispondi, scopri che la linea è libera.
Di seguito trovate il trailer doppiato in italiano di Black Phone 2, nei nostri cinema dal 16 ottobre: