Un thriller claustrofobico che parte da un’idea affascinante ma non riesce a svilupparne appieno le potenzialità emotive e narrative
Brick di Philip Koch parte da un’idea accattivante e immediatamente riconoscibile: una giovane coppia si risveglia trovandosi inspiegabilmente murata viva nel proprio appartamento da un’impenetrabile parete di mattoni neri. Una premessa da classico episodio di Ai confini della realtà che sembra promettere un mix intrigante di allegoria, suspense e mistero.
Ed effettivamente, nella sua prima metà, il film riesce a incuriosire e intrattenere, grazie anche a una regia tesa e a una scenografia curata. Tuttavia, pur supportato da ottime intuizioni visive e da un cast credibile, Brick fatica a mantenere la stessa coerenza narrativa e potenza simbolica nel suo sviluppo, consegnando infine un’esperienza più frustrante che soddisfacente.
Koch, già noto per Tribes of Europa e Picco, non perde tempo e ci introduce immediatamente nella crisi tra Tim, un workaholic sviluppatore di videogiochi, e Olivia, la sua compagna architetta stanca della distanza emotiva creatasi dopo un aborto. La loro dinamica è ben delineata: lui si rifugia nel lavoro per evitare il dolore, lei cerca un nuovo inizio, anche se questo significa lasciare tutto. Ma quando Olivia apre la porta per andarsene, scopre che ogni via d’uscita è stata bloccata da una parete nera, metallica, silenziosa e totalizzante. Niente elettricità, niente acqua, niente rete. Solo isolamento.
L’allegoria è immediata: quella parete rappresenta tanto il trauma non elaborato quanto le barriere comunicative nella coppia. Eppure Brick si rifiuta fin da subito di fornire coordinate precise sul suo universo narrativo, scegliendo un’ambiguità che all’inizio stimola, ma che col passare dei minuti diventa più un ostacolo che un punto di forza. La regia costruisce la tensione in modo misurato, con un design claustrofobico ma efficace e movimenti di macchina che sfruttano bene lo spazio verticale dell’edificio. Quando i protagonisti sfondano una parete per raggiungere un altro appartamento, il film cambia marcia e si apre a una dimensione più corale.
È in quel momento che Brick inizia a perdere parte della sua identità. L’ingresso di nuovi personaggi – i tossici Marvin e Ana, il nonno armato Oswalt con la dolce nipotina Lea, e il poliziotto complottista Yuri – porta colore ma anche cliché. Ognuno rappresenta un tipo umano: il razionale, l’istintivo, l’allarmista, il comico. La sceneggiatura prova a orchestrare un microcosmo sociale tra tensioni e alleanze, suggerendo sottotesti da Cube, Escape Room o persino Il Buco, ma non arriva mai a scavare davvero nella complessità psicologica o ideologica di queste interazioni. I riferimenti politici, come le vaghe allusioni al “deep state” e alla sorveglianza di massa, rimangono accennati e superficiali, impedendo al film di diventare una vera parabola sociale.
A livello tecnico, Brick comunque si distingue. La scenografia è precisa, dettagliata, mai generica. Gli ambienti riflettono perfettamente le personalità degli inquilini: dal kitsch psichedelico della coppia Marvin-Ana alla sobrietà austera dell’appartamento di Oswalt. Il muro stesso – una massa irregolare di mattoni scuri e levigati – ha un fascino alieno e inquietante. Le scene d’azione sono ben dosate, con effetti speciali minimali ma convincenti. Anche il montaggio aiuta a mantenere un ritmo sostenuto, almeno fino a metà film.
Le interpretazioni sono solide. Matthias Schweighöfer (Army of thieves), nel ruolo di Tim, riesce a trasmettere un dolore trattenuto, quasi imploso, alternando momenti di vulnerabilità e tensione. Ruby O. Fee, nei panni di Olivia, è intensa e credibile, soprattutto nei momenti di scontro con Tim. Il loro confronto verbale al culmine della frustrazione emotiva è tra le scene più autentiche del film. Frederick Lau porta comicità e isteria controllata al personaggio di Marvin, mentre Salber Lee Williams regala ad Ana un tono più razionale. I personaggi secondari, sebbene ben interpretati, restano però troppo schematici per lasciare un impatto duraturo.
Il problema principale di Brick è proprio la sua incapacità di affondare davvero nel cuore dei temi che suggerisce. L’idea della segregazione forzata e della progressiva perdita di umanità nei contesti chiusi viene esplorata solo in superficie. Il film suggerisce, ma non argomenta; costruisce tensione, ma non la fa esplodere; sfiora il dramma, ma non lo abbraccia. Anche la rivelazione finale, vagamente metafisica o tecnologica, manca di incisività. Il mistero del muro resta irrisolto, ma non in modo enigmatico o stimolante – semplicemente, non sembra importante. Un errore, perché in storie come queste il “perché” conta tanto quanto il “come”.
In confronto a titoli simili, Brick risulta meno incisivo. Cube usava il suo spazio unico per riflettere sulla logica, la gerarchia e il sacrificio. The Platform affrontava la disuguaglianza sociale con brutalità. Anche I Peccatori, pur restando avvolto nel mistero, riusciva a evocare un senso di oppressione e riflessione storica. Brick, invece, sembra voler essere un po’ di tutto senza scegliere una direzione chiara. Perfino nei momenti di tensione crescente, come l’incontro con il personaggio di Yuri, manca quel salto di qualità capace di trasformare la paura in inquietudine reale.
Nel complesso, Brick è un film che parte bene, ma non mantiene le sue promesse. È un thriller psicologico visivamente curato, ma troppo timido nella scrittura e nelle implicazioni tematiche. Potrebbe piacere a chi cerca un’esperienza leggera ma tesa, senza pretese filosofiche. Ma per chi desidera un’opera che usi la fantascienza claustrofobica per dire qualcosa di profondo sull’uomo, sulla società o sulla memoria collettiva, il film resta un’occasione mancata. Come un muro che affascina, ma dietro cui non c’è nulla.
Di seguito trovate il trailer internazionale di Brick, su Netflix dal 10 luglio: