Il regista torna sulle scene con un'opera dal messaggio di fondo limpido, ma dallo sviluppo erratico e dai personaggi troppo abbozzati
A otto anni da L’alba del pianeta delle scimmie e a cinque dal suo ultimo lungometraggio per il cinema (il non esaltante The Gambler con Mark Wahlberg), il regista Rupert Wyatt – qui anche produttore e sceneggiatore – torna sulle scene con Captive State, progetto fantapolitico che fin dal debutto del primo trailer qualche mese fa, aveva destato grande interesse da parte dei fan della fantascienza distopica. Ora che finalmente lo abbiamo visto – e possiamo parlarne dopo l’embargo impostoci ‘dall’alto’, saremo stati appagati dal risultato?
La risposta la anticipa l’enigmatica espressione del protagonista ‘Giovanni Bravuomo’, aka John Goodman:
Come la canonicità insegna, al ventesimo minuto di un film dovrebbe accadere un ‘evento chiave’ nello script riportato sul grande schermo. Questo elemento serve infatti a catalizzare l’attenzione dello spettatore, a rapirlo e a farlo incuriosire ulteriormente su quanto stia accadendo … Esatto, ‘dovrebbe’!
Seguiamo così la storia di un mondo del futuro non molto diverso dal nostro, una Terra del 2025 sulla quale sono arrivati gli alieni ben 10 anni prima e dove da allora il tempo si è fermato (un trucco per ‘fermare’ anche il budget a 25 milioni di dollari). Grazie alla loro “avanzatissima tecnologia roccia” sono riusciti a fare quello che i regimi totalitari di inizio secolo scorso avevamo solo lontanamente immaginato: creare la ‘burocrazia perfetta’, schiacciando ogni altra forza militare umana e instaurando di fatto uno stato di polizia che ha fratturato la società (aka Chicago, aka l’America, aka la civiltà).
Tutto giace sotto l’egemonia dell’irsuta razza aliena, che tira le fila dal sottosuolo e sta prosciugando le risorse del pianeta. Qualsiasi aspetto della res pubblica viene gestito da un SuperGoverno formato da “Legislatori”, che è in diretto contatto con un Commissario di origini terrestri a capo di un imponente e repressivo organo di Polizia.
Non trattandosi però di un sistema efficace come quello che il buon Giudice di strada potrebbe suggerire, la scintilla della rivolta contro l’oppressore è nuovamente pronta a divampare (aspetta dove l’abbiamo già sentita questa …? Mmmm … Ah si! In Rogue One: a Star Wars Story!).
“Nuovamente” perché anche molti anni prima c’era stato un tentativo di far valere i valori della razza Umana, anche se di questo avvenimento non ci è dato sapere. Vi chiederete anche voi perché non vogliamo descriverlo; ce lo chiediamo anche noi. Come accade per buona parte di Captive State e per quasi tutti i personaggi presentati, molto spesso non ci è dato sapere al di là delle loro vicende attuali.
La storia dovrebbe presentare due protagonisti avversi, il già citato John Goodman (Argo), poliziotto speciale filo-alieno e Ashton Sanders (The Equalizer 2), il giovane afro-americano dal passato complicato, ma fallisce quasi subito nel farci intravvedere qualcosa dietro al velo della monoespressività da cattivo del primo e la piattezza di un personaggio riBBBelle da cliché [NDR forse 4 ‘B’ erano meglio].
Come anticipato, i primi venti minuti del lungometraggio sono carismatici quanto il comodino di fianco al vostro letto; a luci spente.
Assodato che la prima parte di Captive State sia purtroppo da cestinare, veniamo al twist.
Come ampiamente suggerito dai vari trailer, non siamo di fronte al classico film di fantascienza a tema invasione aliena. Al di là del fatto che qui gli extraterrestri vincono e non vengono presi a pugni in faccia appena usciti dalle loro astronavi, la trama vuole vertere piuttosto sugli aspetti del post invasione. Intende stuzzicare, centellinando le informazioni, su come possa essere cambiata – in peggio (?) – la nostra società con la salita al potere di queste misteriose creature, e nel mentre far vedere la duplice reazione della nostra razza di fronte a una situazione del genere.
In questo aspetto, Captive State assume un taglio completamente diverso e riesce là dove aveva fallito nel primo atto, introducendo il Gruppo Fenice.
È qui che la pellicola acquista le connotazioni di un thriller, distaccandosi completamente dal genere fantascientifico classico.
Costruito bene, snello e dal buon ritmo. Bravo Rupert Wyatt.
Purtroppo, con l’approssimarsi del gran finale, anche il ritorno dell’altro protagonista prevedibilmente si avvicina felpato. Non scriveremo oltre per evitare ogni tipo di spoiler, ma aspettatevi una buona dose di WTF?! (la recensione continua dopo il trailer)
Sembrano due opere distinte. Come nel trailer che avete appena visto, pare esserci “un altro trailer” prima della presentazione effettiva. Allo stesso modo, Captive State presenta una duplicità che possiamo identificare bene nelle scene del personaggio interpretato da Ashton Sanders in opposizione a quello di John Goodman, e poi quello composto dal gruppo terroristico Fenice.
Sono solo alcuni esempi degli importanti elementi che Rupert Wyatt avrebbe – sulla carta – voluto sviluppare. “Avrebbe voluto” sviluppare se avesse scelto una linea meno ampollosa e criptica e più attenta alla sostanza e non al “non dire”. Probabilmente le numerose riscritture della sceneggiatura, l’ultima delle quali – decisiva – coincisa guarda caso con la clamorosa elezione di Donald Trump nel 2016 e con la messa in atto seguente del Muslim Ban, hanno sicuramente influenzato il risultato finale arrivato al cinema. Peccato, perché tutti questi input provano a rincorrersi in tondo senza ottenere alcun sostanziale risultato, finendo per ricordare i Visitors senza topi e un banalotto abbozzo di V per Vendetta, senza maschere coi baffetti.
In definitiva, Captive State manca di anima e passione nei punti in cui erano necessari. Tutti i personaggi (tra i quali anche Vera Farmiga, in un piccolo ruolo chiave) sono solo abbozzati, monodimensionali e senza un passato, e capita spesso di chiedersi perché lo stiano facendo. Se la scelta di non “perdersi” troppo dietro alle vicende relative all’attacco e all’arrivo degli alieni invasori, purtroppo non possiamo dirci soddisfatti comunque di quanto mostrato.
Ci troviamo quindi di fronte a un’occasione mancata. Un risultato che fa arrabbiare perché riesce negli aspetti più difficili, come non strizzare troppo l’occhio al prevedibile lato fantascientifico della vicenda per creare pathos e riuscire rendere una storia articolata, ma che vede franare tutto ciò che c’era di buono a causa di scelte troppo ‘comode’.
È sempre più facile nel sottile gioco del dire/non dire la seconda opzione, ma non dire così tanto è una pericolosissima arma a doppio taglio.
Ci piacerebbe dirvi cosa pensiamo della conclusione (e ce ne sarebbe, visto il messaggio ambiguo), ma preferiamo non togliere la soddisfazione di scoprirlo a coloro che si recheranno in sala. Dato che siamo a Chicago, ci appelleremo al quinto emendamento dei nuovi Legislatori e ne riparleremo magari tra qualche settimana, quando tutti coloro che volevano vederlo, l’avranno visto.
Nel frattempo …
Yabba dabba Nooooooo!
Captive State debutterà nei nostri cinema il 28 marzo.