Sci-Fi & Fantasy

Chien 51: la recensione del film sci-fi francese di Cédric Jimenez

Roschdy Zem e Adèle Exarchopoulos sono i protagonisti di una distopia crime ambientata in una Parigi futuristica, più promettente nei presupposti che soddisfacente nei risultati

Fantascienza e politica, quando si incontrano sul grande schermo, hanno spesso generato visioni potenti di mondi in crisi: distopie future dominate da sistemi di controllo onnipresenti, società in disgregazione e governi che regolano la vita dei cittadini attraverso la sorveglianza tecnologica. Dal Metropolis di Lang al Minority Report di Spielberg, passando per Brazil e Blade Runner, il cinema di fantascienza ha sempre raccontato il futuro per parlare del presente.

Su queste basi si muove anche Chien 51 (Dog 51), film di fantascienza diretto da Cédric Jimenez e presentato in anteprima al Sitges Film Festival 2025, tratto dal romanzo Cane 51 di Laurent Gaudé (2022). Un progetto ambizioso, visivamente curato e tematicamente attuale, che tuttavia finisce per rimanere intrappolato nella superficie delle proprie idee.

Siamo nella Parigi del 2045, una città spezzata in tre “Zone” rigidamente separate in base alla classe sociale: Zone 1, abitata dalle élite; Zone 2, la fascia intermedia; e Zone 3, dove vivono i reietti, confinati in quartieri ghetto dominati da povertà e criminalità. A mantenere l’ordine è ALMA, un’intelligenza artificiale che ricostruisce virtualmente le scene del crimine e calcola la percentuale di colpevolezza di ogni sospettato, riducendo il margine d’errore umano. Ma quando il suo creatore viene assassinato da un misterioso terrorista, due poliziotti di estrazione opposta – interpretati da Roschdy Zem e Adèle Exarchopoulos – vengono costretti a indagare insieme in un’indagine che li trascinerà nel cuore oscuro del sistema.

Le premesse sono affascinanti, soprattutto perché calate in un momento storico in cui la fiducia cieca nell’intelligenza artificiale e negli algoritmi di predizione è già realtà. Dal riconoscimento facciale nelle strade cinesi alla polizia predittiva americana, l’idea che le macchine possano stabilire chi è colpevole e chi innocente non appartiene più alla fantascienza ma alla cronaca. Chien 51 cerca di riflettere su questo, ma si ferma presto alla soglia del discorso, preferendo appoggiarsi a un immaginario estetico già ampiamente codificato.

Jimenez costruisce un futuro che sembra assemblato da frammenti di altri film: i neon di Blade Runner, le paranoie algoritmiche di Minority Report, la desolazione urbana di I Figli degli Uomini, le tensioni sociali di Elysium. Ma, invece di rielaborare queste influenze in modo originale, Chien 51 le riproduce in modo meccanico, privo di ironia o profondità.

Il risultato è una distopia dal look elegante ma dall’anima prevedibile, un noir futurista dove tutto – dai droni di sorveglianza ai grattacieli digitalizzati – sembra già visto. A tratti il film prova a scartare di lato, come nella scena del karaoke futuristico in cui i due protagonisti, dopo aver interrogato una prostituta, intonano “What’s Up” delle 4 Non Blondes. È un momento surreale e dissonante, quasi bessoniano, che interrompe per un istante la cupa seriosità dell’insieme. Ma resta un lampo isolato, perché Jimenez, fedele al suo stile muscolare e iperrealista, tende a schiacciare tutto sotto il peso della gravità morale.

Sul piano produttivo, il film beneficia di un budget consistente (coprodotto da Canal+ e Netflix) e lo sfrutta bene: la Parigi del futuro, realizzata con un convincente mix di location reali e CGI, alterna quartieri degradati e torri iper-luminose, evocando quell’immaginario nutrito che Blade RunnerGhost in the Shell arriva a Gattaca. Una sequenza subacquea nella Senna, in cui Zem tenta di infiltrarsi nella Zona 1, è girata con notevole impatto visivo – anche se resta una parentesi più estetica che drammatica.

Dove il film funziona ancora meno è proprio nel rapporto tra i due protagonisti. Roschdy Zem e Adèle Exarchopoulos formano una coppia improbabile, la cui chimica sembra provenire più da esigenze di sceneggiatura che da una reale tensione narrativa. Il legame fra i due si fonda unicamente sulle loro origini comuni nella misera Zona 3 – un dettaglio che dovrebbe giustificare empatia e solidarietà, ma che resta un pretesto debole, mai davvero approfondito. I personaggi, più che vivi, appaiono abbozzati e prevedibili: da un lato il poliziotto disilluso ma onesto, amato dai reietti e tormentato dal peso della coscienza; dall’altro l’ufficiale inflessibile, apparentemente gelida ma segnata da un passato traumatico e da un bisogno inespresso di amore e riconoscimento.

Archetipi visti e rivisti, Jimenez sembra interessato più all’idea di coppia simbolica – l’uomo del popolo e la donna del sistema – che ai loro moti interiori. Il risultato è che le loro interazioni mancano di intensità e sfumature: ogni battuta suona funzionale, ogni sguardo già scritto. Persino il loro progressivo avvicinamento, che dovrebbe incarnare la possibilità di redenzione in un mondo dominato dalle macchine, si consuma in un sentimentalismo meccanico, privo di reale peso emotivo.

Il resto del cast serve più da contorno che da sostanza: Louis Garrel, nei panni del leader ribelle dei Breakwalls, gruppo dissidente anti-tecnologico; Romain Duris è un ministro degli Interni che incarna la quintessenza del politico  viscido e maneggione; Valeria Bruni Tedeschi è una comparsa fugace nel ruolo di medico idealista dei bassifondi. Tutti ruotano intorno a un messaggio ripetuto più volte: quando è l’intelligenza artificiale a giudicare, la società perde la sua umanità, e l’individuo viene spersonalizzato a semplice ingranaggio sacrificabile; se il concetto è innegabilmente interessante, manca del tutto la profondità necessaria per scavare nelle sue implicazioni etiche o politiche.

In fondo, Chien 51 è un film prigioniero del suo stesso sistema: una riflessione sul controllo che finisce per controllare troppo la propria immaginazione. L’idea di un’intelligenza artificiale che misura la colpevolezza umana resta potente, ma Jimenez non la usa per indagare la responsabilità morale, l’ambiguità o la fallibilità dell’uomo. Tutto è superficialmente bianco o nero, buono o cattivo, con la complessità sacrificata in nome della spettacolarità.

Il risultato è una parabola dal potenziale enorme, sprecata in un racconto lineare, esteticamente impeccabile ma concettualmente sterile. Un noir sci-fi che osserva la disumanizzazione tecnologica con lo sguardo di chi teme il futuro, ma non lo comprende davvero.

Il trailer internazionale:

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Published by
Sabrina Crivelli