Il regista francese firma una dark story fantasy visivamente affascinante, seppur derivativa, in cui brilla un Ray Stevenson reso folle dalla solitudine
Strana favola dark che declina al dramma, Cold Skin – La Creatura Di Atlantide (il titolo originale è La piel fría) di Xavier Gens (The Divide) sembra un singolare ibrido sospeso tra Charles Darwin e H. P. Lovecraft, in cui una mostruosa presenza incombe minacciosa.
L’uomo si trasferisce così nel lido pressoché disabitato in cerca di silenzio e di meditazione, ma presto scopre che il luogo è infestato da misteriose creature che lo assaltano nottetempo e, nel tentativo di respingerle, dà fuoco alla sua casupola di legno, distruggendone buona parte ed essendo costretto a trasferirsi nel vicino faro.
Qui, tuttavia, vive già Gruner (Ray Stevenson), un attempato ufficiale reso folle dalla solitudine, insieme ad Aneris (Aura Garrido), un anfibio femmina antropomorfo che a più riprese parrebbe senziente, ma che lui tratta senza alcun rispetto come un semplice animale da compagnia, sufficientemente umanoide però nelle sembianze e nelle movenze da portare l’esule a indulgere in blasfeme pratiche zoofile.
Non solo; il vecchio, che pare aver smarrito ogni traccia di lucidità, ha intrapreso una lotta senza requie contro i compagni di Aneris, che ogni notte assaltano inesorabilmente le mura della torre, attratti dal canto da lei emesso. Il marcato squilibrio del suddetto, che obbliga anche il nuovo arrivato ad unirsi a lui nello sterminio della sconosciuta specie marina, porta come prevedibile a un tragico epilogo …
Singolare incrocio tra le più svariate suggestioni, in Cold Skin – La creatura di Atlantide centrale è la psicologia dei protagonisti, in particolare quella di Gruner, figura enigmatica e oscura che nella sua pazzia arriva perfino all’autodistruzione, ricordando l’Achab di Moby Dick. Il dialogo/ scontro di quest’ultimo con il nuovo arrivato risulta l’epicentro di tutto lo svolgimento, che discende lentamente nelle tenebre di una contorta e maniacale psiche umana. Si tratta di un ritratto ambiguo, come ambiguo è lo status quo, la tesissima situazione con gli abitanti dei mari limitrofi che è degenerata in una sanguinosa battaglia, di cui sono lasciati volutamente nebulosi i contorni e i pregressi.
Secondo l’uomo è infatti la violenza degli autoctoni contro l’invasore ad aver scatenato la sua risposta, ma la sua furia omicida, che potrebbe avere radici diverse, fa immediatamente riflettere sugli orrori di un colonialismo barbaro, come quello dei conquistadores in America, che decimarono interi popoli. Fiabesco allora forse in superficie, lo stratificato e multiforme materiale originario sottolinea la crudeltà dell’uomo verso gli indigeni o la Natura, tradotto dalla bestialità di Gruner, resa perfettamente dall’interpretazione di Stevenson, che mai ricade in semplicistiche steriotipizzazioni.
Il soffermarsi tanto sulla componente paesaggistica s’inserisce d’altra parte nel più generale discorso di melvilliana memoria sullo scontro tra uomo e natura.
Non solo gli esterni diurni, anche le scene notturne degli assalti brillano per visionarietà e maestria nella realizzazione: ripresa dall’alto vediamo la sottostante costa ripida e rocciosa immersa nell’oscurità, poi il raggio circolare e discontinuo emesso dal faro e la luce del razzo lanciato in aria la illuminano e emergono dalle tenebre le sagome di un infinito stuolo di creature, che s’inerpicano minacciosamente poggiando su quattro e due arti, infine salgono le pendici, mantenute nella penombra, dell’edificio turriforme, per assaltare in ultimo i due che lo presidiano con foga ferina.
Il creature design è peraltro ugualmente accattivante, regalandoci un incrocio tra uomo e anfibio dal colore verdastro e dai lineamenti smussati e familiari, che riporta alla mente i Na’vi di Avatar (con cui condivide una certa critica ecologista) e il dio fluviale di La Forma dell’Acqua.
In particolare è palese il debito con quest’ultimo, di cui è ripresa la claustrofobica convivenza di due sconosciuti per l’appunto in un faro, nonché l’insania del primo arrivato, reso pazzo dal lungo isolamento. Si risente di conseguenza della confusione di plurime fonti anche nella resa su pellicola, che finisce per oscillare tra dramma, horror, fantastico e amoroso, senza però approfondire o portare a compimento nulla.
Prodotto strano e poco definibile da categorie ben determinate, Cold Skin – La Creatura Di Atlantide è tuttavia nel complesso un lavoro riuscito, soprattutto grazie all’immaginario che Gens è capace di concretizzare e per le ottima performance del trio di protagonisti, Oakes, Stevenson e la Garrido.
Di seguito trovate il trailer italiano: