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Titolo originale: Cujo , uscita: 10-08-1983. Budget: $5,000,000. Regista: Lewis Teague.

Cujo e il finale del film del 1983 diverso dal libro (ma approvato da King)

11/05/2025 news di Stella Delmattino

Tutto merito - o colpa - di Dee Wallace

cujo film dee wallace

C’è una sottile linea rossa che separa l’orrore dalla disperazione, e spesso nel cinema tratto da Stephen King si tende a calpestarla. Ma nel caso di Cujo – adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo pubblicato da King nel 1981 – a impedirlo fu una donna.

Non una sceneggiatrice, non una produttrice, ma l’attrice protagonista: Dee Wallace, volto familiare del cinema horror degli anni Ottanta, che impose una condizione precisa prima di accettare il ruolo della madre assediata da un cane rabbioso. Il bambino, disse, non doveva morire.

Nel romanzo originale, ambientato nel soffocante cuore dell’America rurale, un enorme San Bernardo, infettato dalla rabbia dopo il morso di un pipistrello, semina il panico e la morte. L’apice della tensione si raggiunge quando Donna Trenton e il figlio Tad restano intrappolati nella loro auto in panne, un’afosa Ford Pinto, mentre Cujo sorveglia famelico l’esterno. Alla fine, Donna trova la forza di affrontare l’animale, colpendolo con una mazza da baseball e poi accoltellandolo con un frammento. Ma Tad, nel romanzo, muore di colpo di calore, lasciando il lettore con un senso di impotenza totale.

Il film del 1983, diretto da Lewis Teague e scritto da Don Carlos Dunaway e Barbara Turner, segue fedelmente molte tappe narrative del romanzo, ma introduce una svolta decisiva: Tad si salva.

L’iniziativa, come emerso in un’intervista rilasciata da Dee Wallace nel podcast Still Here Hollywood, fu sua:

«Quando mi hanno contattata ho detto: “Il bambino non può morire.”»

cujo film 1983Un’idea che colpì anche lo stesso Re del Brivido, tanto che – secondo quanto riferito dall’attrice – lo scrittore le scrisse per ringraziarla: «Grazie a Dio che non avete ucciso il bambino alla fine. Non ho mai ricevuto così tante lettere d’odio per qualcosa che ho scritto

Non è raro che King, pur maestro indiscusso della suspense e della costruzione narrativa, venga criticato per i suoi finali. Lo ammette anche lui, con una certa autoironia, in It – Capitolo Due (2019), dove compare in un cameo ironico, mentre uno dei protagonisti – alter ego dello stesso King – viene accusato di rovinare sempre le conclusioni delle sue storie.

Cujo, in questo senso, rappresenta uno dei casi più emblematici: la violenza cieca del destino, l’indifferenza dell’universo, l’orrore come assenza di redenzione. Ma il cinema è anche immaginario collettivo, e la morte di un bambino sullo schermo, in un contesto così realistico, rischia di varcare il confine tra narrazione tragica e trauma inutile.

Cambiare quel finale significò spostare l’asse del film: non più puro terrore, ma lotta e salvezza. Donna, già sopravvissuta all’oppressione domestica e a un contesto patriarcale che l’aveva schiacciata, trova la forza non solo di reagire, ma anche di proteggere ciò che ha di più caro. Non è poco. E se la critica ha spesso giudicato Cujo un’opera minore, soffocata dalla sua struttura minimalista, è proprio grazie a quella scelta morale se oggi il film mantiene intatta la sua forza.

Interessante notare come l’intervento di un’attrice abbia avuto un impatto tanto incisivo su una produzione horror anni ’80, periodo in cui raramente alle interpreti femminili era concesso più che urlare e morire. E ancora più singolare che uno scrittore come King – notoriamente protettivo nei confronti delle proprie storie – abbia apprezzato un cambiamento così sostanziale. Forse perché la compassione, a volte, racconta meglio l’orrore.

Oggi, a distanza di oltre quarant’anni, si parla di un nuovo adattamento di Cujo, questa volta prodotto per Netflix da Roy Lee, con Darren Aronofsky in trattative per la regia. Un nome inaspettato, noto per il suo cinema viscerale e psicologico (Requiem for a Dream, Madre!), che potrebbe riportare alla luce il lato più disturbante del romanzo.

Ma il dilemma etico resterà lo stesso: è davvero necessario mostrare il peggio per trasmettere paura? O si può, come fece Wallace, salvare il bambino e non perdere l’efficacia?

Di seguito trovate il trailer di Cujo: