Il regista torna sulle scene con un'opera che mescola survival, serial killer e shark movie, ma resta prevedibile
Dangerous Animals conferma che Sean Byrne sa ancora creare cattivo umore, ma rivela anche il limite di un autore che questa volta non trova l’idea capace di scardinare il genere.
Dopo l’iperbole sadica ma sorprendentemente lucida di The Loved Ones e la deriva psicologica di The Devil’s Candy, ci si aspettava un nuovo ribaltamento dei codici. Invece Byrne imbastisce un racconto compatto e teso, sì, ma sorprendentemente lineare: una sopravvissuta designata, un carnefice, il mare come recinto. L’architettura è quella del “film di squali” incrociato con il thriller di prigionia, ma gli squali sono quasi una cornice; il vero predatore è umano e ha un nome: Tucker (Jai Courtney).
Il prologo mette subito in chiaro la chiave del film: la minaccia non è là sotto, è sul ponte. Tucker, capitano bonario quanto basta per rassicurare i turisti prima di consegnarli al massacro, è un devoto del mare e della sua gerarchia, e trasforma il nutrimento delle bestie in spettacolo. La sua barca è insieme mattatoio e sala di posa, con una videocamera che registra ogni dettaglio come reliquia.
Qui sta l’intuizione più fertile: far coincidere lo sguardo del killer con quello di chi costruisce immagini, trasformando la “caccia” in messinscena, i corpi in materia prima, le riprese in feticci. È un’idea che potrebbe aprire una riflessione scomoda sul piacere dello sguardo nel cinema dell’orrore, sul confine tra attrazione e complicità. Byrne la evoca, ma la lascia scivolare via: affiora nelle inquadrature del mirino, nei nastri etichettati, nelle prediche pseudo-naturalistiche del boia, senza però diventare davvero discorso.
Sul versante del personaggio, Jai Courtney è aiutato da una presenza fisica massiccia e da scarti grotteschi che a tratti accendono il film: il sorriso che si incrina, la danza sguaiata dopo una “ripresa” andata a segno, la logorrea da sedicente esperto di squali che ferisce più delle minacce. Eppure il ritratto resta incompiuto. Tucker dovrebbe incarnare l’orrore dell’uomo qualunque che passa inosservato, ma non riesce a sprigionare quell’abisso morale che davvero toglie il fiato; spesso sembra più un meccanismo che un mostro. L’ossessione per i pescecani, brandita come alibi ecologista, finisce come un vezzo: una chiosa ripetuta che sostituisce il pensiero.
Ma anche qui la scrittura si ferma presto: cenni di passato in affido, diffidenza verso i legami, il bisogno di scappare all’alba dopo un incontro casuale. Abbozzi efficaci, non una vera traiettoria. Il duello con Tucker regge la tensione, manca quella seconda linea di senso che, nei lavori precedenti di Byrne, scollinava il genere verso un’altra cosa.
Il punto debole strutturale è la ripetizione. Una volta stabilito il gioco – lei incatenata, lui che prepara la “scena”, l’acqua come ricatto – il film torna sugli stessi passi: monologo, tentativo, punizione, attesa. Quando il racconto prova ad allargarsi a terra, con l’uomo incontrato da Zephyr che tenta di rimettere insieme gli indizi, la narrazione guadagna poco: è una funzione, non un controcanto. Anche i colpi di scena, quando arrivano, sembrano sforzi del congegno più che conseguenze inevitabili dei caratteri. Il risultato è un andamento che resta teso ma prevedibile, come una mareggiata annunciata che non sorprende nessuno.
E tuttavia Dangerous Animals non è mai sciatto. Byrne conosce la grammatica del pericolo: il frangersi delle onde come metronomo, la luce crudele del giorno che espone tutto, l’arancio della barca che stride con l’azzurro del mare come un cartello d’allarme. La colonna sonora spinge senza invadere, gli effetti di trucco nei momenti più cruenti non cercano il compiacimento ma la ferita. Quando intervengono gli squali, il digitale si vede e la paura si assottiglia; per fortuna il film non punta lì, preferisce la tensione circoscritta dello spazio chiuso, i corridoi, la cabina, il cigolio delle catene.
Sul piano tematico, il film tocca corde essenziali: l’idea del mare come libertà che si rovescia in prigione, la retorica del “rispetto per la natura” usata per giustificare l’odio verso le donne, la compassione selettiva per le bestie e l’indifferenza per i corpi umani. È qui che Dangerous Animals potrebbe graffiare di più, mostrando come l’ordine “naturale” diventa maschera per la violenza strutturale. Invece si accontenta di enunciarlo, affidando il resto al disgusto. Si esce con il fastidio giusto – lo spettacolo dell’abuso non è mai comodo – ma con la sensazione che manchi una lama concettuale capace di incidere più a fondo.
In termini di collocazione, l’ombra del capostipite del “film di squali” grava su tutto. Evocarlo esplicitamente significa sfidarlo, e qui la sfida non viene sostenuta: il confronto serve soprattutto a ribadire che i pescecani sono il pretesto, la voracità è altrove. È un rovesciamento sensato, ma già noto. Il cinema australiano del pericolo naturale incontra il carcere a cielo aperto della barca e il dispositivo del “guardare che uccide”: è un incastro che funziona, non una rivelazione.
Dangerous Animals è allora un paradosso: un prodotto solido che scorre come una ferita aperta, ma che non lascia cicatrici nuove. Tiene incollati, inquieta, a tratti nausea; non sorprende davvero, non sposta l’asse del suo autore. Chi cerca un piccolo classico troverà un’opera ben fatta che predilige l’attrito fisico all’idea, un antagonista interessante a metà e un’eroina che regge l’urto ma resta figurina. Chi sperava nel colpo di reni di Sean Byrne dovrà attendere: qui il mare è agitato, non tempestoso.
Di seguito trovate il trailer doppiato in italiano di Dangerous Animals, nei nostri cinema dal 20 agosto: