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Demon Slayer: Il Castello dell’Infinito, la recensione del film animato

Il regista Haruo Sotozaki inaugura la trilogia finale di Kimetsu no Yaiba con battaglie epiche, simbolismo e spettacolo visivo di alto impatto

Demon Slayer: Kimetsu no Yaiba – Il Castello dell’Infinito rappresenta l’apertura di una trilogia cinematografica conclusiva destinata a chiudere una delle saghe anime più amate e popolari del nostro tempo. L’opera diretta da Haruo Sotozaki e prodotta dallo studio Ufotable porta sul grande schermo la trasposizione dell’arco narrativo ambientato appunto nel Castello dell’Infinito, un luogo che diventa non solo scenario, ma anche entità ostile e trappola in continua mutazione.

L’impatto visivo è immediato: corridoi che si piegano su sé stessi, scale che sembrano non finire mai, pareti che si aprono come porte scorrevoli per inghiottire i personaggi. La costruzione spaziale richiama la vertigine dei labirinti impossibili, ma declinata attraverso un immaginario giapponese che mescola architetture tradizionali a geometrie oniriche. Questo ambiente non è un semplice sfondo, bensì un avversario a pieno titolo che isola i protagonisti e li costringe ad affrontare i demoni più potenti.

La forza del film risiede nei combattimenti, vero cuore pulsante della serie. Ogni spadaccino impiega tecniche di respirazione che si trasformano in immagini spettacolari, flussi d’acqua, fiamme e lampi che trasfigurano lo scontro in danza coreografica. Le battaglie non sono mai solo esercizi di forza: spesso si intrecciano con i ricordi dei personaggi, che durante lo scontro rivivono momenti del loro passato. Questo meccanismo, tipico degli shōnen, qui assume la forma di un dialogo interiore, dove il trauma e la perdita si riflettono nei gesti delle spade. Alcuni critici hanno definito questi flashback una pausa che spezza il ritmo, ma in realtà costituiscono la cifra distintiva della saga, che preferisce la profondità emotiva alla pura frenesia visiva.

La violenza è più esplicita che mai: il sangue scorre in abbondanza, le membra si lacerano, gli scontri sono caratterizzati da un realismo crudele che convive con l’estetica lirica delle tecniche di combattimento. In questo equilibrio fra crudezza e poesia visiva risiede una delle ragioni del successo planetario del franchise. Lo spettatore non assiste soltanto a un duello, ma a una prova esistenziale in cui ogni personaggio mette in gioco la propria identità, il proprio dolore e la possibilità di redenzione.

Se da un lato il film mostra una straordinaria cura tecnica, combinando animazione tradizionale e grafica digitale con un dettaglio maniacale, dall’altro evidenzia alcune debolezze legate alla sua natura di adattamento fedele al manga. La scelta di mantenere intatta la struttura originale comporta un ritmo irregolare: la durata di oltre due ore e mezza risulta appesantita da interruzioni frequenti, che nella serialità televisiva avrebbero avuto un impatto diverso. Il cinema richiede tempi narrativi più compatti, e la fedeltà assoluta al materiale di partenza rischia di penalizzare l’efficacia drammatica di alcune sequenze.

La musica gioca un ruolo determinante. L’alternanza tra orchestrazioni solenni e inserti elettronici amplifica l’epicità delle battaglie e il pathos dei ricordi, mentre momenti di silenzio calcolati interrompono il fragore delle spade per aumentare la tensione. Anche i contributi vocali, dalle nuove canzoni di Aimer fino al ritorno di LiSA, arricchiscono la dimensione emotiva e radicano il film nella continuità con le produzioni precedenti.

Un aspetto critico è l’assenza quasi totale di Nezuko, che era stata il cuore emotivo della vicenda sin dagli esordi. La sua marginalità in questo primo capitolo della trilogia crea un vuoto che viene parzialmente colmato dall’intensità delle nuove battaglie, ma resta evidente. La stessa cosa vale per alcuni personaggi secondari, pronti però a riemergere nei capitoli successivi. Questa parzialità narrativa è inevitabile: Infinity Castle non è pensato come conclusione autonoma, ma come avvio di un lungo epilogo che troverà compimento solo nei due film seguenti.

Dal punto di vista concettuale, Demon Slayer: Il Castello dell’Infinito si distingue per il modo in cui trasforma il combattimento in metafora interiore. I demoni non sono solo mostri da eliminare, ma incarnazioni di ferite, desideri e colpe umane. Ogni scontro è al tempo stesso esterno e interiore, un duello fisico e un percorso di elaborazione psicologica. Questa dimensione rende il film più che un semplice spettacolo visivo: diventa un rito di passaggio, un viaggio nell’abisso dell’animo umano che trova nella spada il gesto catartico.

Con questo film, la saga di Kimetsu no Yaiba raggiunge il suo culmine tecnico e tematico. È un’opera che divide: da un lato entusiasma per l’animazione impeccabile e l’epicità dei duelli, dall’altro può apparire dispersiva e frammentata. Ma proprio in questa tensione tra eccesso e introspezione risiede la sua unicità. Il Castello dell’Infinito non è solo il preludio alla conclusione di una saga, è la dimostrazione della vitalità del cinema d’animazione giapponese e della sua capacità di coniugare spettacolo popolare e ricerca estetica.

Di seguito trovate il trailer di Demon Slayer: Kimetsu no Yaiba – Il Castello dell’Infinito, nei cinema dall’11 settembre:

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Published by
Gioia Majuna
Tags: recensione