L'attrice 83enne racconta raggiante alcuni simpatici episodi della sua lunga carriera; intorno, non brillano About Endlessness di Roy Andersson e Guest Of Honour di Atom Egoyan
Tra film, passerelle sul tappeto rosso, code per entrare nelle sale etc. le giornate qui al Lido sembrano tutte uguali. Ma non lo sono, a partire dalla colazione del mattino: un giorno brioche e cappuccino al tavolo costano quattro euro, il giorno successivo – stesso bar, stesso menù, persino stesso orario, se può interessare – cinque. Lo stesso vale anche per le proiezioni, perché dopo numerosi giorni di consenso pieno il Concorso ha proposto due titoli che hanno lasciato piuttosto interdetti gli spettatori.
I vincitori di giornata sono quindi due persone che fino ad oggi avevano avuto vita dura: Stefano Disegni e Gianni Ippoliti. Il primo, in qualità di vignettista ufficiale della Mostra, propone quotidianamente una striscia dissacrante sulle opere più brutte o più astruse, ma per sua stessa ammissione ha fatto fatica sinora a rimediare del materiale. Il secondo cura da parecchi anni in collaborazione con il Codacons l’iniziativa “Ridateci i soldi“, conosciuta tra gli habituè come “Il muro” e consistente nella pubblicazione su una parete a fianco del Palazzo del Cinema di stroncature rigorosamente scritte a mano. Per i motivi sopra detti, quest’anno il Muro è molto più povero di scritti e addirittura qualcuno, ugualmente smanioso di produrre qualcosa, vi ha lasciato elogi al proprio film prediletto, sovvertendone così la funzione.
Ognuno dei personaggi di About Endlessness (Om det oändliga – Sull’infinito) pronuncia più volte le proprie battute, sempre le stesse. Poi la scena finisce e si passa a un’altra, analoga ma senza nulla in comune con la precedente quanto a logica di sceneggiatura. Ad accomunare i quadretti è infatti soltanto il senso di solitudine trasmesso sia dai personaggi, abbandonati al loro destino e vittime dell’incomunicabilità, sia dai luoghi che frequentano, tristi e legati alla routine della vita: quelli che Marc Augé definirebbe i “non-luoghi” : un bar, una pescheria, un ufficio, uno studio dentistico e via dicendo. Con un po’ più di humour il film sarebbe stato apprezzabile, nonostante o forse proprio per la sua bislaccheria e la sua surrealtà; così invece rischia di essere una copia debole del precedente. In un festival dove la durata media dei film avvicina le due ore, va comunque dato atto ad Roy Andersson di aver proposto un’opera di 76 minuti. Alla proiezione ufficiale applausi convinti da circa metà degli spettatori, perplessità tra gli altri. Tra questi, a vederne l’espressione del volto, il giurato Paolo Virzì.
Molto calorosi invece quelli tributati a Julie Andrews all’ingresso nella sala dove si è svolta la sua chiacchierata con il pubblico. A differenza di quanto ha fatto con chi le domandava autografi e foto, alle domande non si è sottratta. Ha ricordato che il suo rapporto con il cinema iniziò quando già aveva lavorato da protagonista a Broadway con i musical My Fair Lady nel 1956 (portato anche a Londra nel 1958) e Camelot (1960). Se di quest’ultimo le avrebbero poi chiesto nel prosieguo della carriera di portarlo anche in sala ottenendo un suo rifiuto perché lo considerava un lavoro prettamente teatrale dunque non adatto al cinema, del primo avrebbe tanto desiderato essere la protagonista anche su grande schermo. “La Warner però voleva un’attrice già affermata e così chiamo la mia grande amica Audrey Hepburn”. Fu in realtà la sua fortuna, perché rimanendo libera poté accettare la proposta di Walt Disney che, dopo averla vista a teatro in Camelot, le offrì il ruolo di protagonista in Mary Poppins con tanta convinzione che, saputo che era incinta di tre mesi, decise di rinviare le riprese pur di averla nella parte della celebre governante.
Un’impresa in cui non avrebbe pensato di riuscire, nonostante un approfondito lavoro su voce e postura maschili. Lavorò anche con Alfred Hitchcock, insieme a Paul Newman ne Il sipario strappato, del quale ricorda una scena in particolare: quella in cui i due protagonisti si trovano a letto sotto dieci coperte, per suscitare l’impressione del freddo dell’esterno. Così però faceva troppo caldo e la passionalità non riusciva a sprigionarsi, allora il regista fece mettere un ventilatore tra le lenzuola.” Amava travolgere i tuoi sentimenti, incutere paura e subito dopo farti ridere. Amava la manipolazione nei confronti dello spettatore”. Julie Andrews ha smesso di cantare dopo aver subìto un intervento chirurgico; oggi fa la regista (ha diretto My Fair Lady in Australia), scrive, produce e doppia. Così come Blake Edwards non ha una grande considerazione di Hollywood: “Lui impazziva perché a suo dire non andava considerato come un business, ma arte. Invece è sempre stata un’industria. Odio l’ignoranza, la mancanza di empatia. Quella è la cosa che mi delude di più”.
Di seguito il trailer internazionale di About Endlessness: