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Diario da Venezia 76 | Giorno 7: Il muro delle critiche piange, Julie Andrews foriera di aneddoti

04/09/2019 news di Giovanni Mottola

L'attrice 83enne racconta raggiante alcuni simpatici episodi della sua lunga carriera; intorno, non brillano About Endlessness di Roy Andersson e Guest Of Honour di Atom Egoyan

muro ippoliti venezia 76

Tra film, passerelle sul tappeto rosso, code per entrare nelle sale etc. le giornate qui al Lido sembrano tutte uguali. Ma non lo sono, a partire dalla colazione del mattino: un giorno brioche e cappuccino al tavolo costano quattro euro, il giorno successivo – stesso bar, stesso menù, persino stesso orario, se può interessare – cinque. Lo stesso vale anche per le proiezioni, perché dopo numerosi giorni di consenso pieno il Concorso ha proposto due titoli che hanno lasciato piuttosto interdetti gli spettatori.

I vincitori di giornata sono quindi due persone che fino ad oggi avevano avuto vita dura: Stefano Disegni e Gianni Ippoliti. Il primo, in qualità di vignettista ufficiale della Mostra, propone quotidianamente una striscia dissacrante sulle opere più brutte o più astruse, ma per sua stessa ammissione ha fatto fatica sinora a rimediare del materiale. Il secondo cura da parecchi anni in collaborazione con il Codacons l’iniziativa “Ridateci i soldi“, conosciuta tra gli habituè come “Il muro” e consistente nella pubblicazione su una parete a fianco del Palazzo del Cinema di stroncature rigorosamente scritte a mano. Per i motivi sopra detti, quest’anno il Muro è molto più povero di scritti e addirittura qualcuno, ugualmente smanioso di produrre qualcosa, vi ha lasciato elogi al proprio film prediletto, sovvertendone così la funzione.

OM DET OÄNDLIGA (SULL’INFINITO) filmA salvare la strana coppia Disegni & Ippoliti sono stati About Endlessness (Om det oändliga – Sull’infinito) di Roy Andersson e Guest Of Honour di Atom Egoyan. Il primo non è un vero e proprio flop, ma ha lasciato ugualmente esterrefatti quegli spettatori che non conoscono il suo autore. Saremmo peraltro tra questi se Andersson non avesse vinto il Leone d’Oro nel 2014 con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. Un film bizzarro, del tutto diverso da qualunque altro film di qualunque genere, la cui vittoria scatenò polemiche essendo considerata simbolo della propensione di alcune giurie ad andare contro il gusto popolare. Da allora Roy Andersson non aveva più diretto film, e adesso ha ripreso il cammino esattamente da dove aveva terminato. Questo nuovo lavoro è infatti identico al precedente, solamente un po’ meno buffo. È composto sempre di una serie di quadretti che paiono fotografie per quanto assente sia ogni tipo di movimento, sia della camera che degli attori. Ogni scena è costituita da una singola inquadratura fissa, con una ripresa solitamente sghemba rispetto a quella che sarebbe prevedibile, e dialoghi surreali. L’episodio più simbolico è quello di un prete in crisi di vocazione che si reca quasi in lacrime nello studio di uno psicanalista ripetendo in continuazione “Cosa si può fare quando si perde la fede?”. La segretaria gli risponde: “Stiamo chiudendo, lei ha appuntamento la settimana prossima”. Poi arriva il dottore e dice: “Devo prendere l’autobus”.

Ognuno dei personaggi di About Endlessness (Om det oändliga – Sull’infinito) pronuncia più volte le proprie battute, sempre le stesse. Poi la scena finisce e si passa a un’altra, analoga ma senza nulla in comune con la precedente quanto a logica di sceneggiatura. Ad accomunare i quadretti è infatti soltanto il senso di solitudine trasmesso sia dai personaggi, abbandonati al loro destino e vittime dell’incomunicabilità, sia dai luoghi che frequentano, tristi e legati alla routine della vita: quelli che Marc Augé definirebbe i “non-luoghi” : un bar, una pescheria, un ufficio, uno studio dentistico e via dicendo. Con un po’ più di humour il film sarebbe stato apprezzabile, nonostante o forse proprio per la sua bislaccheria e la sua surrealtà; così invece rischia di essere una copia debole del precedente. In un festival dove la durata media dei film avvicina le due ore, va comunque dato atto ad Roy Andersson di aver proposto un’opera di 76 minuti. Alla proiezione ufficiale applausi convinti da circa metà degli spettatori, perplessità tra gli altri. Tra questi, a vederne l’espressione del volto, il giurato Paolo Virzì.

GUEST OF HONOUR egoyan filmL’avrà avuto probabilmente ancora più corrucciato quando ha visto il film di Atom Egoyan. Anche il regista armeno aveva presentato a Venezia il suo precedente film, Remember. Come allora, torna sul tema della memoria con una storia farraginosa, nella quale si accavallano due vicende parallele (quella di un uomo che lavora come ispettore sanitario nei ristoranti e quella di sua figlia musicista e insegnante) e almeno tre o quattro diversi piani temporali mescolati in continuazione. Questa particolare struttura ha lo scopo di fornire a poco a poco le rivelazioni sul vissuto dei due protagonisti, fino a ricollegare le storie di entrambi. Guest Of Honour inizia al momento della morte del padre e l’organizzazione del funerale per poi rievocare la carcerazione della figlia per un abuso sessuale non commesso ai danni di un suo studente. Un film pieno di misteri e colpi di scena, che come sempre quando sono troppi affaticano la visione e annoiano lo spettatore, sul quale pesano come un macigno le ossessioni, i rancori, i sensi di colpa, i non detti che connotano ampiamente i rapporti tra i vari personaggi, in particolare tra i due principali. Appassionarsi diventa dunque difficile tanto quanto comprendere appieno la vicenda a causa delle contorsioni narrative che solo in parte riescono a risolversi nel finale. Anche per questo film, nonostante la presenza in sala del regista e della deliziosa protagonista, l’attrice brasiliana Laysla de Oliveira, gli applausi sono stati freddini.

Molto calorosi invece quelli tributati a Julie Andrews all’ingresso nella sala dove si è svolta la sua chiacchierata con il pubblico. A differenza di quanto ha fatto con chi le domandava autografi e foto, alle domande non si è sottratta. Ha ricordato che il suo rapporto con il cinema iniziò quando già aveva lavorato da protagonista a Broadway con i musical My Fair Lady nel 1956 (portato anche a Londra nel 1958) e Camelot (1960). Se di quest’ultimo le avrebbero poi chiesto nel prosieguo della carriera di portarlo anche in sala ottenendo un suo rifiuto perché lo considerava un lavoro prettamente teatrale dunque non adatto al cinema, del primo avrebbe tanto desiderato essere la protagonista anche su grande schermo. “La Warner però voleva un’attrice già affermata e così chiamo la mia grande amica Audrey Hepburn”. Fu in realtà la sua fortuna, perché rimanendo libera poté accettare la proposta di Walt Disney che, dopo averla vista a teatro in Camelot, le offrì il ruolo di protagonista in Mary Poppins con tanta convinzione che, saputo che era incinta di tre mesi, decise di rinviare le riprese pur di averla nella parte della celebre governante.

julie andrews venezia 76Quando vinse il Golden Globe ringraziò pubblicamente Jack Warner per quel suo rifiuto. Il ricordo di questo film è per lei ancora molto vivo, non soltanto perché l’ha resa famosa nel mondo. “In Mary Poppins non si vede nulla. Nessuno di quei fili che ci permettevano di volare. Fu uno dei primi film tanto innovativi. Avevo un’imbragatura molto dolorosa per volare, non a caso le scene in cui volavo me le fecero fare tutte alla fine, perché temevano che potesse succedermi qualcosa”. Era solo il primo di una serie di set avventurosi. In Tutti insieme appassionatamente le condizioni non furono mai favorevoli: pioggia, freddo, montagne e tempi d’attesa infiniti. “La scena d’apertura del film la girammo l’ultimo giorno. Ero ai lati di un campo e il cameraman, su un elicottero, si avvicinava verso di me, rasente al suolo, come se fosse una gigante cavalletta che mi veniva incontro. Io dovevo solo girarmi, iniziare a cantare e correre all’indietro. L’abbiamo fatto 6/7 volte, ma ogni volta che mi giravo l’elicottero mi faceva cadere con la forza delle sue pale, perché era troppo vicino. E io mi lamentavo, perché mi ritrovavo sempre a mangiare paglia”. Attribuisce alle doti del regista Robert Wise la buona riuscita del film, come attribuisce a Blake Edwards (suo secondo marito, col quale condivise 41 anni di matrimonio) il miracolo di essere riuscito a renderla credibile come uomo in Victor Victoria.

Un’impresa in cui non avrebbe pensato di riuscire, nonostante un approfondito lavoro su voce e postura maschili. Lavorò anche con Alfred Hitchcock, insieme a Paul Newman ne Il sipario strappato, del quale ricorda una scena in particolare: quella in cui i due protagonisti si trovano a letto sotto dieci coperte, per suscitare l’impressione del freddo dell’esterno. Così però faceva troppo caldo e la passionalità non riusciva a sprigionarsi, allora il regista fece mettere un ventilatore tra le lenzuola.” Amava travolgere i tuoi sentimenti, incutere paura e subito dopo farti ridere. Amava la manipolazione nei confronti dello spettatore”. Julie Andrews ha smesso di cantare dopo aver subìto un intervento chirurgico; oggi fa la regista (ha diretto My Fair Lady in Australia), scrive, produce e doppia. Così come Blake Edwards non ha una grande considerazione di Hollywood: “Lui impazziva perché a suo dire non andava considerato come un business, ma arte. Invece è sempre stata un’industria. Odio l’ignoranza, la mancanza di empatia. Quella è la cosa che mi delude di più”.

Di seguito il trailer internazionale di About Endlessness: