Cerchiamo di capire come il film d'esordio del regista del 2002 in realtà nasconda, al di là delle apparenze da body horror, un prezioso insegnamento sulla natura umana
Dire che il cinema del terrore si è ritrovato a vagare in posti strani durante il primo decennio degli anni 2000 è un eufemismo. Gli slasher erano tornati in voga e altrettanto rapidamente erano di nuovo scomparsi, il meta-horror aveva guadagnato popolarità e tutti quanti stavano facendo del loro meglio per essere taglienti e scioccanti senza però riuscire a realizzare dei buoni film. Insomma, non è stato in generale un grande momento storico per il genere, anche se ci sono ovviamente delle eccezioni. Tra queste c’è il film d’esordio di Eli Roth, Cabin Fever (2002).
In primo luogo c’è il bizzarro umorismo che lo pervade. Prendere, ad esempio, la famigerata scena dei “Pancake! Pancake!”. Arriva durante il terzo atto del film, con Bert (il classico ‘cazzone’, interpretato da James DeBello) che va in cerca di aiuto poiché la maggior parte delle altre persone nello chalet sono malate. Il proprietario di un negozio di alimentari gli dice che chiamerà un medico e che di rimanere dove si trova. Quindi, il ragazzino (presumibilmente chiamato Dennis, se dobbiamo credere al cartello che dice “NON SEDERSI VICINO A DENNIS“) si avvicina facendo delle insensate mosse di karate, scalciando in aria al rallentatore prima di mordere Bert sulla mano.
Il padre del bambino inizia a inveire contro Bert, dicendo che ora – dopo il morso – suo figlio potrebbe esser stato infettato, una situazione che equivarrebbe all’omicidio. Gli punta anche il fucile, ma alla fine non spara. Il fatto è che Bert è colui che ha accidentalmente sparato a un escursionista infetto all’inizio del film e poi Paul (Rider Strong) lo ha ucciso con il fuoco. Un gesto piuttosto orribile anche se è stato accidentale, ma questa è la seconda volta che Bert viene accusato di aver ucciso qualcuno.
Cabin Fever sicuramente gioca con gli stereotipi, con ogni personaggio che ricopre il ruolo ‘da slasher’ designato, ed è carico di violenza, momenti ‘schifosi’ e di sesso non troppo convenzionale. La cosa interessante, tuttavia, è che mentre molti dei protagonisti possono risultare insopportabili (proprio il già citato Bert è in cima alla lista …), sono comunque coerenti e per lo meno dotati di una qualche forma di sviluppo così che lo spettatore possa capirli. Anche il modo in cui vengono tratteggiati i redneck segue una traiettoria abbastanza classica , ma qui hanno un certo senso. Tuttavia, come ogni altra cosa nel film, viene portata all’estremo.
Quindi, mentre la rappresentazione degli abitanti del luogo come ottusi, ostili bifolchi è stata portata sul grande schermo almeno un milione di volte prima, in Cabin Fever, questi individui hanno un po’ ragione a comportarsi in un certo modo. La gran parte dei protagonisti è superficiale, non sono esseri umani esattamente fantastici, e non hanno assolutamente torto a diffidare di loro.
Ovviamente, i ragazzi non intendevano necessariamente ucciderlo, ma la situazione precipita rovinosamente fino a quando non si arriva alla violenza, e questo si riflette nel modo in cui i locali prendono le armi durante il terzo atto. Sebbene non siano persone particolarmente nobili, Bert stava davvero cercando aiuto per il suo amico contagiato, e loro lo hanno immediatamente evitato. Per quanto grottesco possa suonare per un film in cui un personaggio descrive una sessione di masturbazione che coinvolge il suo cane, Cabin Fever è una specie di favola ammonitrice su quando si permette ai pregiudizi di prendere il sopravvento.
Tutto questo dona al film un’atmosfera quasi fiabesca. Le favole – specie nelle loro versioni originali – han sempre avuto come obiettivo primario l’impartire dure lezioni di vita ai bambini in modi che loro possano capire, ovvero attraverso storie ricche di elementi fantastici in grado di attirare la loro attenzione e archi narrativi dei personaggi che dimostrassero il punto. Cabin Fever è, per molti versi, una fiaba moderna destinata ai maggiori di 18 anni sul non essere degli stronzi egoisti e insensibili.
A ulteriore riprova, quando Paul cerca per l’ennesima volta aiuto e si imbatte nello smemorato vice sceriffo Winston (Giuseppe Andrews) che sta facendo baldoria con alcuni ragazzi sul ciglio della strada, questi, vedendolo imbrattato di sangue e sentendo lo sceriffo che per radio dice di sparare a vista agli infetti, vogliono soltanto scacciarlo con le cattive, senza provare minimamente a soccorrerlo.
Sia chiaro, nessuno sta provando a dimostrare che Cabin Fever sia un’opera incredibilmente stratificata, perché ha sicuramente i suoi problemi, su tutti i protagonisti per niente simpatici. Eppure, ricorre al suo strano senso dell’umorismo e al ribaltamento dei cliché del genere per narrare un divertente e raccapricciante racconto morale che suggerisce come andrebbero trattati i nostri simili, andando oltre le apparenza.
Fu un debutto molto promettente da parte di Eli Roth, che in seguito avrebbe continuato a plasmare il resto del decennio horror con i ‘torture porn’ Hostel (2005) e Hostel: Part II (2007). Se non altro, è affascinante ripensare a un’epoca in cui un grande studio hollywoodiano distribuiva body horror di questo tipo con protagonista una delle star della serie per ragazzi Crescere, che fatica!, girato da un regista al debutto.
Di seguito la scena col ragazzino mordace di Cabin Fever: