Nel 1990 l'attore e regista portava sul grande schermo il personaggio creato da Chester Gould, circondandosi di maestranze qualificatissime e di un cast di comprimari che vantava Al Pacino, Dustin Hoffman e Madonna
A differenza dei colleghi Jack Nicholson e Dustin Hoffman, suoi intimi amici, Warren Beatty era sembrato ‘immune’ alle suggestioni del presenzialismo. Forse proprio per questo motivo, in concomitanza dello «sbarco» alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1990 del suo Dick Tracy, si abbattè sull’attore e regista la mannaia delle voci. Ad esempio che Dick Tracy, dal punto di vista commerciale, stesse andato male. Uscito il 15 giugno, ai botteghini americani avrebbe incassato «soltanto» 105 milioni di dollari, a fronte di previsioni che davano sicuri i 250 milioni.
Costato, secondo alcuni, non più di 30 milioni di dollari (invece dei 47 dichiarati), Dick Tracy ha però consentilo una gigantesca operazione di marketing basata su gadget, contratti quinquennali con società di distribuzione alimentare, sponsor inseriti nel mercato internazionale dei giocattoli, tre grandi stilisti europei che – pur di fare l’affare – hanno accettato di non «firmare» i capi indossati da Warren Beatty e, dulcis in fundo, il ‘Madonna tour’ di quello stesso anno, con tutto il suo carico di polemiche, pettegolezzi, veri o presunti scandali.
La genialità di Warren Beatty consisteva nell’aver ridotto tutti i costi al punto da andare in pareggio quando il film era uscito nelle sale da appena quattro ore. Il grosso della spesa, infatti, era stato il cachet per lui, per la cantante Madonna (ingrassata addirittura 5 kg per la parte) e per Al Pacino, l’altro grande coprotagonista (candidato all’Oscar per il ruolo), reso irriconoscibile dalla sapiente azione di John Caglione Jr. e Doug Drexler (premiati con l’Academy Award per il Miglior trucco).
Ma i tre, essendo in compartecipazione, di fatto, non comparivano nel bilancio della produzione. Molte immagini del lungometraggio furono girate parte in bianco e nero e poi colorate in elettronico con soltanto quattro colori: giallo, verde, rosso e blu, senza tonalità intermedie (che costavano di più).
Warren Beatty fece inoltre in modo che si dicesse in giro che le riprese erano durate sette mesi, ma in realtà fu molto meno. Poi, montò Dick Tracy con effetti speciali: a cura di due tecnici artigiani, Myron e Jeil Rockbridge, e lo mise nel cassetto. Posticipò l’uscita di ben otto mesi, con le voci che si accavallavano sostenendo che non ce l’avrebbe fatta ad arrivare nei cinema, che i costi erano troppo alti, che qualcosa non aveva funzionato. E cosi, in quel lasso di tempo era scattata l’operazione tesa a costruire l’evento mediatico.
Un esempio. Il 26 marzo del 1990, in occasione della premiazione degli Oscar, Barbara Wallers, decana della televisione americana, lo intervistava per la rete Abc. Warren Beatty, che compariva in video dopo ben 11 anni, parlò poco di Dick Tracy, dichiarando soltanto “Madonna è la più grande attrice di tutti i tempi“. Si mostrava timido, impacciato, poco loquace, imbarazzato, quasi non avesse voluto comparire e fosse stato costretto da chissà chi. Quando il film infine uscì nelle sale, durante il primo weekend raggiunse i 23 milioni di dollari, su 2.437 sale cinematografiche negli Usa, a New York e Los Angeles su 453 cinema. A New York, nella sola città, rimase in 208 sale per ben 46 giorni: sufficienti per incassare circa 50 milioni di dollari soltanto a Manhattan e Queens. A fine corsa, gli incassi globali toccarono i 162 milioni di dollari.
L’affaire Dick Tracy in realtà, fruttò alla premiata ditta Warren Beatty / Madonna una cifra complessiva pari a circa 500 milioni di dollari, e senza quell’assillo derivante dal dover per forza stare sempre sulle prime pagine dei rotocalchi. Un clamoroso affare annunciato, tutto gestito nel silenzio, nella prudenza e viaggiato nel sottaciuto. Nella miglior tradizione di Warren Beatty, di Madonna e di Al Pacino, geniali affaristi quanto mai fiscali.
Al Pacino, infatti (noto per aver mollato Oliver Stone il primo giorno di riprese di Nato il 4 luglio perché l’assegno da 4 milioni di dollari preventivato era in ritardo di 48 ore, obbligando poi la produzione a sostituirlo con Tom Cruise) era – ed è – un attore talmente magico da riuscire a far funzionare un film anche quando nessuno sa che lui c’è; una mossa che sembra gli abbia fatto guadagnare qualcosa come 35 milioni di dollari …
In un bell’articolo intitolato Tracymania, apparso nel giugno del 1990 sulle pagine di Newsweek, David Ansen e Pamela Abramson ricapitolavano la faticosa gestazione di Dick Tracy, un progetto con il quale – si apprendeva – si erano misurati cineasti del calibro di Martin Scorsese, John Landis, Clint Eastwood. L’unico che sembrava potesse farcela fu Walter Hill, quello di Strade di fuoco (non a caso un fumetto rock d’azione), ma a quel punto erano sorti dei contrasti con lo stesso Warren Beatty, il quale voleva lavorare in tutt’altra direzione: non un noir realistico e granuloso, ma un divertissement stilizzato ed elegante, che ricreasse le impressioni dell’infanzia. Le sue impressioni.
Per un’epoca come quella attuale, che ha visto l’esplosione definitiva dei cinecomic su larga scala, i tardi anni ’80 e primi anni ’90 avevano già provato a (ri)perlustrare con alterne fortune il fascinoso mondo dei fumetti, dal Batman di Tim Burton Il Vendicatore con Dolph Lundgren (la recensione), passando per Howard e il destino del mondo, cercando di dare continuità al solco tracciato da Superman di Christopher Reeve e dal televisivo L’Incredibile Hulk qualche tempo prima. Tuttavia, un discorso leggermente diverso è quello riguardante la trasposizione di fumetti popolari prima della Marvel e della DC Comics, vale a dire i vari Flash Gordon, Buck Rogers e, naturalmente, Dick Tracy, tutti quanti portati negli anni ’40 sul grande e piccolo schermo e poi spariti col cambiare dei gusti del pubblico (salvo il – fallimentare – tentativo di Mike Hodges di riportare in auge il biondo personaggio creato da Alex Raymond nel 1980).
Prima diffidenti e curiosi, via via catturati dal trascinante ritmo, bisogna ammettere senza vergogna che, dinnanzi alla progressione delle immagini “urlate”, delle impudenti smargiassate del protagonista e di tutti i suoi inveleniti rivali, si prova la stessa nativa, candida, esaltazione infantile/adolescenziale suscitata a suo tempo dalle prime letture, dai primi albi, dai primi film.
Dick Tracy, si dimostra un’opera, anche al di là della sua diretta ascendenza da una celebre strip, compiutamente e autonomamente risolto proprio sullo specifico piano cinematografico-spettacolare. Come detto, per propiziare l’esito favorevole dell’ambizioso progetto, Warren Beatty prioritariamente mobilitò grazie al suo star power un cast tecnico e artistico di eccezionale valore. Quindi, prodigandosi, lui per primo (nel ruolo centrale del levigato, raffinato detective del titolo) nell’armonizzare ogni singolo contributo creativo – dall’iperrealismo magico e insieme sapiente dei bagliori, delle trasparenze inventate dal direttore della fotografia Vittorio Storaro (candidato all’Oscar), alla scenografia parossistica e parodistica di Richard Sylbert (vincitore dell’Academy Award per il suo lavoro), dai costumi eleganti fino al grottesco ben temperato di Milena Canoncro alle musiche, alle canzoni ambiguamente allusive e ironiche di Stephen Sondheim (anch’egli vincitore di una statuetta per Sooner Or Later) – il sagace attore e autore riesce a proporzionare sullo schermo una favola retrò di smagliante fascino figurativo e drammatico.
Le cadenze iniziali di Dick Tracy sembrano per un attimo troppo monocordi, ma è una falsa impressione. Di lì a poco, il gioco e la dinamica narrativi, pur virati costantemente su toni e colori accesamente eccessivi, si ramificano, si articolano con perfetta progressione ritmica. Fino a toccare l’epilogo con una tripudiante, sentimentalissima vittoria del Bene sul Male, con l’indomito Dick Tracy trionfante sull’abiezione del crimine. Dick Tracy e la sua amata (e mai sposala) Tess Cuorsincero (Glenne Headly) si trovano sbalestrati tra crimini e criminali spaventosi, spietatissimi. Nell’intrico si mischia la fatalissima Mozzafiato Mahoney (una Madonna di singolare misura e bravura) e tanti altri loschi liguri. Va a finire che, tra cruenti fattacci e feroci vendette, tutto si risolve per il meglio. Compreso il patetico destino di uno scafato ragazzino orfano preso in mezzo a tanti e a tali sfracelli.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che il Dick Tracy di Warren Beatty, una volta goduti le meraviglie del décor, gli effetti ottici, le raffinatezze cromatiche e grottesche, non lasci un gran segno. L’uomo, sia chiaro, così indeciso e morbido, improbabile anche quando scarica il mitico Thompson a tamburo sulle macchine dei gangster. In tal senso però, Dick Tracy è sicuramente il film che Warren Beatty sognava da una vita. Finto, frastornante, avvolgente. Tuttavia, lui, l’eroe, passa in secondo piano, «mangiato» letteralmente, un po’ come succedeva in Batman tra Michael Keaton e Jack Nicholson, dalla bravura di Al Pacino / Big Boy Caprice. Il vero personaggio tragico della storia, uno Shylock aggressivo e dolente che sogna di essere Busby Berkeley sotto la gobba e i belletti da trucido.
Qualcuno ha scritto che Dick Tracy va considerato “una vacanza” nella carriera di Beatty, “the work of a cinematic couturier”, il lavoro di un sarto cinefilo, un regalo da prendere per quello che è. E a noi sta bene così com’è.
Di seguito il trailer internazionale di Dick Tracy: